Lezione del seminario Margini e Confini: Cittadinanze Gianluca Bocchi

Lezione del seminario
Margini e Confini: Cittadinanze
Prof. Gianluca Bocchi

Buon giorno a tutti, quando ho accettato con piacere di venire a Napoli, ho deciso, parlando con Vittoria Fiorelli di fare un intervento in qualche modo complementare agli altri interventi del vostro seminario.
Io parlerò dei confini esterni dell’Europa; oggi. se andiamo a vedere bene tutti i conflitti che sono scoppiati nel mondo dall’89 a oggi, troviamo una fascia, una linea sismica, come dice Morin, che parte dal Marocco, dall’ Algeria e arriva fino all’India, al Pakistan e al Bangladesh: questa area è chiamata, nella visione internazionale, “Medio Oriente allargato”.
Di tutte le frontiere dell’Europa, fino a pochi mesi fa, quella considerata “meno problematica” era quella russa, perché sapete che il grande spiazzamento oggi dell’Europa e della NATO è dovuto anche al fatto che nel 1997 c’era stato un accordo di partnership con la Russia e che questa era considerata una potenza militare alleata. Il cambiamento della situazione oggi ha creato dei grossi problemi e grosse tensioni soprattutto negli Stati baltici.
La mia particolarità a livello accademico è che cerco di trovare le radici del presente anche nel passato ed anche nel passato remoto. Nel corso di Scienze della globalizzazione ove insegno, ai miei studenti inizio a parlare delle migrazioni dei nostri antenati Primati, nell’Africa di quattro milioni di anni fa, ed arrivo ai giorni d’oggi cercando di avere come filo conduttore la relazione umana con la diversità. Ovviamente non parleremo del passato remoto ma una visione storica la daremo comunque.
Io parto da un discorso che negli ultimi anni ha interessato quella che si chiama “la storia globale”, cioè la storia della specie umana nello spazio e nel tempo. C’è una partizione tra Europa e Asia molto tradizionale: si dice che questa sia stata prodotta dai greci i quali difendendo la propria terra dai persiani, hanno inventato questa contrapposizione tra l’occidente e l’oriente.
Questo è il discorso tradizionale, ma oggi gli storici dicono che per vari scopi per studiare la storia su tempi lunghi possono essere utilizzate anche altre chiavi di lettura oltre a quelle di oriente e occidente: una chiave che può essere particolarmente interessante è quella che ci dice di dividere l’intero continente euroasiatico in Eurasia esterna, fatta di penisole di cui l’Europa è soltanto la più occidentale, nel quale l’agricoltura era l’aspetto economico dominante e in Eurasia interna, in cui l’elemento preponderante era dato dalla pastorizia e dall’allevamento.
Allora, a prima vista, pensando che tutti i grandi imperi hanno il loro cuore in queste penisole agricole – Europa, Turchia, India, Indocina, Cina e Giappone – si pensa che l’Eurasia interna sia poco interessante e questo è un errore capitale perché in primo luogo comprende quasi tutto lo stato russo e anche buona parte della Cina. Queste terre in passato hanno avuto un valore dominante: ad esempio il cavallo è stato per la prima volta addomesticato qui, nelle steppe dell’odierna Ucraina. Questa terra basata sulla pastorizia in realtà è stata focolaio di grandi civiltà che di volta in volta si sono combattute con le altre dell’Eurasia esterna. Noi abbiamo dimenticato queste cose perché è stato comodo parlare di barbari, come Unni, Mongoli, ecc.
Pensiamo solo all’epopea di Gengis Khan, il condottiero e sovrano mongolo che dopo aver unificato le tribù mongole, fondando un Impero, le condusse alla conquista della maggior parte dell’Asia Centrale, della Cina, della Russia, della Persia, del Medio Oriente e di parte dell’Europa orientale, dando vita, anche se per breve tempo, al più vasto impero terrestre della storia umana. Inoltre, oggi si è sviluppata l’idea che nell’Asia centrale (con centro a Samarcanda), durante quel periodo storico che noi chiamiamo ancora i “secoli bui”, cioè il Medioevo, era la sede di una grande filosofia islamica che si è diffusa i in tutta l’area islamica: addirittura il potere politico di queste zone, in cui passavano tutti i collegamenti tra l’Europa, l’India e la Cina, faceva sì di influenzare sia le dinastie islamiche del Medio Oriente che quelle cinesi. Di questa storia non è rimasto quasi nulla, di questa storia che per millenni è stata la nostra parte della storia del mondo, in cui certe volte gli imperi romani e cinesi avevano il sopravvento e altre volte avevano il sopravvento quelli dell’Asia centrale.
All’inizio dell’età moderna, poi c’è un grande scrollone che genera i protagonisti dell’età moderna, a partire dal 1492, e anche i protagonisti del mondo d’oggi, che hanno le loro radici, appunto, in questo periodo.
Che cosa succede nel 1492, e qualche decennio prima?
Non c’è soltanto l’espansione dei popoli europei su quelli del “Nuovo mondo”. Nel “Vecchio mondo” hanno luogo altre cose: in primo luogo la diffusione di una popolazione dell’Asia centrale, quindi originariamente nomade, che si impadronisce di una buona parte dei centri di civiltà del Mediterraneo. Parliamo dei turchi, che etnicamente non vengono dalla Turchia perché l’attuale Turchia è sempre stata di popolamento greco, e che solo dopo il crollo dell’impero bizantino è conquistata da popolazioni che provenivano dall’Asia centrale. Oggi la Turchia è al centro degli interessi dell’opinione pubblica internazionale. Le ragioni sono molteplici: il suo stretto coinvolgimento nella guerra civile in Siria, della quale la Turchia è vittima e parte attiva nello stesso tempo; la speranza di una progressiva soluzione della questione curda, che aveva condotto a un’intermittente guerra civile interna; il lento procedere dei negoziati di adesione all’Unione Europea, rispetto alla quale i governi e i politici europei continuano ad essere quanto mai divisi; l’altrettanto lento consolidamento di uno stato di diritto secondo i canoni e i valori occidentali, oggi decisamente frenato da comportamenti assai dubbi delle autorità giudiziarie e poliziesche. Questa nuova centralità della Turchia nelle relazioni internazionali non è nuova e risale già al tempo della fine della guerra fredda. Ma è indubbio che gli avvenimenti recenti nelle coste orientali e meridionali del Mediterraneo, e nel mondo arabo in genere, l’abbiano portata ancor di più in primo piano.
In quanto discendente dell’Impero Ottomano, l’attuale Turchia ha intessuto profondi legami con i popoli del Medio Oriente, dell’Africa settentrionale, dei Balcani. D’altra parte il popolo turco è il risultato della fusione degli antichi popoli sedentari che abitavano l’Impero bizantino con i popoli nomadi che nel Medioevo irruppero in Asia Minore da oriente, e che avevano come sede originaria le regioni della Mongolia occidentale. Sul piano etnolinguistico, i turchi sono imparentati con gli azeri del Caucaso, con gli uiguri del Xinjiang cinese, con gli jakuti della Siberia, e con molti altri popoli dell’Asia Centrale: kazaki, uzbeki, kirghisi, turkmeni. Da quando l’Asia centrale è diventata la sede delle ambizioni e dei conflitti mascherati delle grandi potenze globali, la Turchia ha opportunamente rinsaldato le relazioni culturali e politiche con tutti questi popoli. L’influenza culturale turca nel mondo islamico è salda e di lunga data. Nel suo processo di espansione, l’Impero Ottomano nel cinquecento aveva conquistato i luoghi sacri dell’Islam nella penisola arabica: per questo il sultano si era conferito anche il titolo di califfo, cioè di guida spirituale per tutti i musulmani. E il califfato durò per secoli, e fu abolito soltanto all’indomani della prima guerra mondiale, quando la Turchia era ormai diventata una repubblica.
Allora c’è un interessante capovolgimento di fronte: nel momento stesso in cui l’Asia centrale quasi scompare dalla storia, alcune popolazioni che vengono da lì conquistano una parte notevole del bacino Mediterraneo. Questo ha conseguenze importantissime ancor oggi: la Turchia è un attore rilevante perché è una terra di collegamento tra il dominio dell’ Impero Ottomano, che per secoli si è esercitato anche in Europa e lungo le coste del Mar Nero, e le terre dell’origine etnica dei turchi, che sono quegli Stati oggi tornati alla cronaca, che sono il Kazakhstan, il Kirghizistan, e così via: è interessante vedere come oggi la Turchia si presenti sia come l’erede dell’Impero Ottomano che come il portavoce delle etnie turche.
Tornando alla storia dell’età moderna, in quella stessa area euroasiatica gli ottomani trovano un potente rivale che si chiama: Russia. Nel momento stesso in cui l’impero Ottomano si propone come una potenza territoriale con capitale Costantinopoli, un altro Stato che fino ad allora era assolutamente marginale, ancora soggetto al vassallaggio dei mongoli, inizia un’incredibile espansione verso est e verso sud. Questo è uno dei tratti fondamentali dell’età moderna, che è ancora poco studiato, e che tuttavia spiega perché la Russia in quanto impero zarista, impero sovietico, e oggi diremmo “terzo impero” nazionalista, è costantemente una delle grandi potenze del mondo. La Russia nasce sull’esatto confine fra Eurasia interna ed Eurasia esterna e poi, nel corso della sua storia, arriva a dominare quasi tutta l’area interna, i cui popoli si vedono assoggettati in buona parte all’impero russo.
Oltre a questi protagonisti c’è ne un altro: la Cina. Fino al settecento la Cina aveva un’area di estensione molto più limitata, era circa la metà della Cina attuale; tutta la parte occidentale, che dal punto di vista etno-ambientale appartiene all’Asia centrale, è stata conquistata appunto nel ‘700 grazie alla dinastia dei Qing che venivano anche loro dalla periferia cinese, cioè dalla Manciuria. La Cina e la Russia in età moderna sono state grandi potenze coloniali e si sono suddivise quella che era l’Asia centrale, cioè la terra dei popoli nomadi: nel corso di questo processo si sono anche alleate in un certo momento. A proposito di confini furono loro a stipulare i primi trattati formali sui confini fra gli Imperi. Alla fine del seicento sono i gesuiti di origine italiana, di cui il più noto è Matteo Ricci, che aiutano la diplomazia russa e cinese a procedere alla spartizione dell’Eurasia interna.
Quindi gli inizi dell’età moderna sono segnati dalla nascita e sviluppo di tre grandi imperi territoriali: Turchia, Russia e Cina che si espandono e si dividono buona parte dell’Eurasia. Accanto a loro, vi è il momento della fioritura dell’Impero indiano dei Moghul e dell’Impero persiano dei Savafidi. Eppure, proprio in questo momento in cui si assiste a una proliferazione di grandi di imperi territoriali, l’Europa occidentale, che è un area che fino al 1492 è assolutamente marginale, prende il sopravvento e lo prende grazie alla realizzazione del sogno di Colombo: andare a Levante per la via del Ponente. Quindi, in qualche misura la storia dell’Europa d’occidente è la storia di un grande accerchiamento degli imperi dominanti fino a quel periodo.
L’Europa. che forma di dominio nel mondo esercita?
E’ una forma di dominio un po’ diversa da quella degli imperi territoriali perché questi sono basati su una capitale al centro del territorio e sul dominio di questo territorio; invece gli imperi europei sono fondamentalmente imperi marittimi. Gli imperi di cui abbiamo parlato hanno il controllo delle ricchezze delle rotte commerciali terrestri, ad un certo punto gli sbocchi occidentali della via della seta vengono controllato dall’impero Ottomano. Quindi l’Europa prospettando una nuova via della seta marittima. Marittimo è anche l’itinerario delle spezie per i portoghesi, che le commerciano partendo dall’Asia orientarle e portandole in Portogallo circumnavigando l’Africa. Quindi l’Europa inventa una nuova forma di commercio globale in cui le rotte sono fondamentalmente marittime ed in qualche misura inventano una forma di “impero a rete”.
Che cosa vuol dire impero a rete?
Soprattutto ai portoghesi fra alla fine del ‘400 e nel ‘500 non importa conquistare territori, importa soprattutto dominare centri di rilevanza commerciale come i porti e avamposti.
I portoghesi costruiscono una serie di avamposti sulle coste africane, in India e anche in Indonesia, ad esempio nell’isola di Timor (che conservwranno per secoli) e fino in Cina. L’Europa inizia a dominare il mondo in questo modo, anche se anche gli spagnoli conquisteranno ampi territori perché non si accontentano semplicemente delle coste americane ma penetrano profondamente all’interno del continente.
Poi ad un certo punto gli olandesi sconfiggono quasi del tutto i portoghesi e li sostituiscono in molti luoghi e in molte rotte. Alla fine arriva la potenza che più di ogni altra ha consegnato alle rotte marittime la sua storia, quella inglese, che costruisce il più grande impero della storia del mondo in una maniera totalmente diversa da quella della costruzione della Russia, proprio perché gli inglesi partono dal controllo di tanti avamposti. Gli inglesi, ad esempio, iniziano a dominare l’India partendo da porti che originariamente erano poco importanti per gli stessi indiani e che oggi invece sono diventati le città maggiori dell’attuale stato dell’India.
La Gran Bretagna alla fine dell’ 800 ha ottenuto uno dei domini più grandi dell’intera storia umana, anzi più grande ancora di quanto non sarà l’Unione Sovietica dopo il 1945. Ribadiamo la differenza: l’impero zarista prima e l’impero sovietico poi sono centrati sul territorio, mentre l’impero inglese accerchia quello russo perché è basato sul dominio delle acque.
Sia gli inglesi che i russi hanno teorizzato quella che si chiama “geopolitica moderna”, ovviamente superata perché inventata nel momento in cui non si conosceva minimamente la possibilità degli aerei e dei missili. Questa visione era imperniata sull’idea dell’esistenza di un’area territoriale fondamentale, a grandi linee equivalenti all’Eurasia interna e quindi dominata dai russi: per controbilanciare il carattere dominante dei russi le potenze coloniali che sono diffuse nei mari del mondo devono contrastare l’espansione russa nelle aree di confine fra Eurasia interna ed Eurasia esterna: Mediterraneo, India, Golfo Persico ecc.
Questa, in realtà, è una visualizzazione e una razionalizzazione del maggior conflitto storico del XIX secolo.
Fondamentalmente esiste un obiettivo della Russa, ossessivo e plurisecolare, che verrà perseguito anche dopo il crollo dell’impero zarista e la sua metamorfosi in Unione Sovietica: l’accesso ai mari caldi. I russi hanno sviluppato un senso di accerchiamento da parte del resto del mondo: storicamente si sono sentiti confinati agli estremi margini boreali del mondo e hanno anche sviluppato un senso di pericolo per le frequenti invasioni del mondo nomadico e in parte islamico, ma soprattutto hanno sentito come limitante il loro ruolo di potenza soltanto terrestre. Allora il primo, grande passo per cui la Russia diventa una grande potenza nel gioco mondiale è quando Pietro il Grande sconfigge la Svezia vicino al mar Baltico e apre una prima finestra sul mare, fondando la sua capitale San Pietroburgo appunto sul primo sbocco marittimo conquistato dalla Russia.
Tuttavia il mar Baltico è pur sempre un mare freddo e soprattutto basta il controllo degli stretti fra Danimarca e Svezia per bloccare ogni velleità di espansione marittima attraverso la rotta in questione. Quindi la Russia si sente costretta ad espandersi verso il sud, verso alri mari, verso il Mar Nero: nel ‘700 è proprio la conquista dell’Ucraina che apre la strada verso questo fronte. Il controllo del Mar Nero diventa ben presto un obiettivo praticabile, e sembra diventare il trampolino di lancio per un progetto ben più ambizioso: il ripristino dell’impero cristiano a Costantinopoli. Già all’indomani del 1453 la Russia amava considerarsi legittima erede dell’Impero bizantino, e ora non nascondeva più la sua ambizione di affacciarsi sul Mediterraneo, una volta ottenuto il possesso del Bosforo e dei Dardanelli. Quindi i russi, affacciandosi sulle coste del mar Nero, definiscono precisamente i loro obiettivi: sono una potenza terrestre che vuole diventare una potenza marittima, arrivando a Costantinopoli, nei Balcani e all’Oceano Indiano.
Dopo i primi successi lungo le coste settentrionale del Mar Nero, l’attenzione della potenza zarista si rivolse più a oriente, e le sue mete divennero appunto le coste orientali del Mar Nero, insieme alle pendici e alle montagne del Caucaso. Il territorio dei circassi fu investito in pieno dalla nuova ondata espansionistica russa. Le prime annessioni coinvolsero la parte centrale della regione, nelle zone montuose abitate dai cabardini. Dopo anni di fiera resistenza, i focolai di ribellione furono domati nei primi decenni dell’ottocento. Subito dopo i russi riuscirono ad eliminare gli ottomani dalle coste circasse ancora in loro possesso e, fra l’altro, dal litorale di Sochi. Tuttavia il retroterra, di non facile controllabilità, non si piegò ai nuovi dominatori: anzi, i circassi e i loro alleati effettuarono ripetuti attacchi agli avamposti che la Russia aveva costituito lungo il Mar Nero. La guerra durò per molti decenni, fino al 1864, parte integrante di uno scontro generale che oppose la Russia a tutti i popoli del Caucaso interno. E questo, a sua volta, è uno degli episodi più rilevanti di quella “guerra fredda” che segnò l’Eurasia intera nel diciannovesimo secolo: il “grande gioco” tra Russia e Gran Bretagna per il controllo dell’Asia Centrale e Meridionale. Anche se il fronte principale di questo conflitto era altrove, fra Afghanistan e Pakistan, il Caucaso fu un fronte per nulla marginale. I britannici diedero vari aiuti materiali ai ribelli caucasici (circassi compresi), e talvolta una vera e propria guerra tra le due grandi potenze mondiali fu evitata di un soffio. Alla fine del lungo conflitto, i russi furono impietosi con i vinti. A interi gruppi dei popoli conquistati fu posta l’amara alternativa di venir esiliati in remote regioni dell’Impero russo oppure di trovare una nuova patria nell’Impero ottomano, quale sede naturale delle etnie di religione islamica.
Allora: nell’800 la grande guerra mondiale che viene fatta non in maniera cruenta come le guerre mondiali del ‘900, è imperniata sul tentativo dei russi di distruggere l’impero ottomano e sul correlativo tentativo degli inglesi e francesi di impedirlo.
Uno dei momenti più critici del “grande gioco” avviene quando la Russia conquista l’Asia centrale, perché così arriva ad un passo dall’Oceano Indiano. Gli inglesi lo vogliono impedire: gli inglesi hanno preso il Pakistan e poi cercano di conquistare l’Afghanistan proprio in funzione anti-russa. Il disastro è grande: gli inglesi vengono distrutti dagli afghani e così decidono di mantenere l’indipendenza dell’Afghanistan, rendendolo però uno “Stato cuscinetto”: la strana forma odierna dell’Afghanistan che confina con la Cina attraverso uno stretto corridoio è appunto il riflesso del progetto inglese per evitare che i russi andassero avanti fino all’Oceano Indiano.
Queste storie iniziano a dare un senso anche alla storia recente: se noi pensiamo a come l’impero russo del 1917 è stato distrutto e come nel giro di pochi anni è rinato sotto forma di Unione Sovietica, ci rendiamo conto che una cosa che sembrava strana negli anni ottanta, cioè l’invasione dell’Afghanistan da parte russa, in realtà era un obiettivo profondamente radicato nella strategia russa da molto tempo: controllare questo Paese significa avere la porta aperta sui mari caldi. Quindi la politica sovietica non è altro che la continuazione della politica dell’impero russo.
Se ci pensate bene, tutti i grandi imperi che hanno deciso la storia del mondo dell’età moderna, nel corso del XX secolo si infrangono: l’impero Ottomano viene smantellato dopo la prima guerra mondiale, rinasce come Turchia e il resto diventa indipendente; la Russia viene smantellata due volte, nel 1917 e poi nel 1991, quando lo sgretolamento dell’Unione Sovietica genera molte repubbliche indipendenti.
L’impero inglese declina invece più gradualmente: ma la data del 1947, quando l’India e il Pakistan diventano indipendenti, segna comunque un momento fondamentale in questo declino ed è la fine per l’impero inglese dell’intervento diretto nel grande scacchiere eurasiatico.
Parlando della fine dell’Impero Ottomano, dobbiamo ricordare come il Medio Oriente ha una caratteristica fondamentale: che la gran parte degli abitanti sono arabi di confessione sunnita, ma con molte minoranze sia etniche che religiose. In una certa misura, l’Impero Ottomano riusciva a gestire diversità culturali spesso assai profonde.
Ma nel 1916 Inghilterra e Francia decidono a tavolino di tracciare una linea di confine nella sabbia dei deserti medio-orientali: a nord è la zone di predominio francese e a sud quella di predominio inglese. Venuto meno l’ordine imperiale, in queste zone le questioni etnico-religiose si sono accese, si sono moltiplicate e sono divenute croniche.
Sia in Medio Oriente che in Asia Centrale gli stati sorti nel ventesimo secolo mancano di coesione interna e sono segnati da profonde divisioni etniche, sociali e religiose: soprattutto, le minoranze non hanno visto migliorate le loro condizioni rispetto all’età degli imperi multinazionali. Conflitti interni si aggiungono a conflitti esterni, nel senso che la collaborazione regionale continua a segnare il passo, persino fra stati che si rifanno alle comuni lingua e cultura arabe.
Quando parliamo di imperi, di nazioni e popoli non si vive in un tempo solo; ci sono dei momenti storici che fanno parte del patrimonio culturale della nazione e che sono un continuo presente e un continuo punto di riferimento.
La concezione dei confini e della politica internazionale che oggi motiva e muove la Russia di Putin è sostanzialmente quella della Russia imperiale dell’ottocento. Il confine è una linea di divisione che separa un dentro e un fuori, un noi e un loro. La politica internazionale è un gioco a somma zero in cui alle vittorie della propria parte fanno da contrappunto le sconfitte altrui, vittorie tanto più apprezzate quando suonano come rivincite delle proprie sconfitte e delle vittorie altrui del passato. Questa visione, naturalmente, non era solo russa, ma era condivisa da tutti gli imperi e da tutte le nazioni europee dell’ottocento.
Però altre visioni, altri giochi sono possibili, anzi sempre più necessari. I confini possono essere ritradotti come luoghi di sovrapposizione e di integrazione fra culture, identità e qualche volta persino sovranità, come nuclei di emergenza e di sperimentazione di nuove forme di cooperazione economica e sociale. Gran parte delle nazioni e dei popoli europei hanno iniziato ad elaborare una tale visione non per una loro particolare lungimiranza, ma perché costretti dai risultati autodistruttivi della visione tradizionale. Mentre negli ultimi decenni l’Unione Europea ha goduto di notevole successo per la reinterpretazione dei suoi confini interni, ha però sottovalutato la possibilità di una reinterpretazione dei suoi confini esterni. Anzi, ha quasi del tutto trascurato la questione. Se c’è un territorio in cui le culture, le identità, la storia e le storie dell’Europa e della Russia si sovrappongono questa è l’Ucraina: frontiera nel presente per la varietà delle identità culturali dei suoi abitanti, frontiera nel passato per la molteplicità degli influssi di Roma e di Costantinopoli, di Varsavia, di Mosca e di Vienna. Ciò è esattamente quello che vogliono negare la visione e le azioni della Russia di Putin. Ma per potere contrastare efficacemente questa visione e queste azioni, bisogna chiedersi se anche noi non abbiamo sottovalutato l’intera questione.
Il problema cruciale di oggi, per l’Europa e per gli Stati Uniti, non è Putin, ma il consenso che le sue mosse riscontrano nel popolo russo: consenso che non si spiega soltanto sulla base della completa e voluta disinformazione di quanto avviene effettivamente in Ucraina. Anzi, è probabile che Putin sia così deciso nella sua linea di condotta proprio al fine di mantenere e rinsaldare il consenso interno col richiamo al nemico esterno, attraverso una strategia ben nota e consolidata in tutti i regimi autoritari. Così ha potuto sorgere il mito di una congiura occidentale dietro lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Così il giudizio di Putin della fine dell’Unione Sovietica quale peggiore catastrofe geopolitica del novecento ha trovato in Russia un consenso quasi incondizionato. Così si è fatto strada il progetto coerente della ricostruzione di un impero, che esisteva ben prima dell’Unione Sovietica e del 1917, utilizzando strumentalmente le contraddizioni e i paradossi che le astruse sistemazioni territoriali dell’età sovietica avevano lasciato in eredità agli stati suoi eredi: prima fra tutti quella dei confini fra le Repubbliche, che è quanto di più invivibile poteva essere escogitato. La repubblica di Moldavia era stata creata sotto Stalin unendo una parte predominante romena con la regione della Transnistria, che non era mai stata romena e che vedeva una forte presenza russa e ucraina: e così dopo il crollo dell’Unione Sovietica è stata proclamata la secessione filorussa della Transnistria, oggi da lungo tempo congelata. L’etnia caucasica degli osseti era stata divisa in due repubbliche autonome sovietiche, una (settentrionale) appartenente alla Russia e una (meridionale) alla Georgia: quando la Georgia è diventata indipendente la Russia ha favorito la secessione dell’Ossezia meridionale, allettando gli osseti con la possibilità di riunire la loro etnia. E oggi è la volta della Crimea, che è diventata terreno esplosivo perché, da russa che era, era stata ceduta all’Ucraina da Nikita Krusciov del 1954, per motivi non chiari: nelle dichiarazioni ufficiali si parlava di razionalizzazione economica, ma certamente hanno giocato un ruolo anche motivi di razionalizzazione militare e, insieme, una limitata concessione al nazionalismo ucraino del tempo, proprio per confinarlo nello stretto quadro di appartenenza all’Unione (Krusciov stesso, notiamo, era nato assai vicino al confine ucraino).
Ecco, l’Unione Europea ha poco compreso e ancor meno elaborato la frustrazione del popolo russo, né ha percepito quanto virulente fossero ancora le ferite, da ogni parte. Non ha saputo rivolgersi allo società civile e anche a quella politica russa, con tutte le difficoltà comportate dalla presenza di un regime autoritario, diffondendo il piccolo germe della prospettiva di una sovrapposizione fra Europa e Russia per la cogestione del vasto terreno della frontiera. E prospettando l’associazione con l’Ucraina forse non si è concentrata sull’innovazione istituzionale necessaria per far sì che l’Ucraina con l’Europa non significasse necessariamente l’Ucraina senza Russia. I processi di associazione e di adesione all’Unione Europea sono inevitabilmente e fortunatamente centripeti: da un “fuori” si viene attirati verso un “dentro”. Ma ai confini dell’Europa ci possono essere altri centri, e le loro relazioni non devono essere governate dalla legge del più forte. Il fatto è, che a breve termine, la ricostituzione di un simulacro dell’impero russo mira a perseguire un’Ucraina senza Europa. Non dimentichiamo che la fase acuta della crisi ha preso il via da un contrasto esplicito tra la volontà popolare di molti ucraini, desiderosi di avvicinarsi il più possibile all’Unione Europea, e il principio di “sovranità limitata” con cui Mosca persiste nel considerare la condizione di Kiev. Staccare l’Ucraina dall’Europa è diventato per Putin un obiettivo strategico, per la sopravvivenza stessa del suo regime autocratico. Nel 1968 una delle motivazioni principali dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia era la paura del “contagio” delle idee riformiste. Oggi c’è un timore analogo: che il crollo di un regime autoritario e corrotto alla frontiera della rinascente potenza imperiale possa incunearsi anche verso il centro, possa diffondere nuovamente fra i giovani l’ideale di una democrazia reale e compiuta. Le parole reboanti del nazionalismo sono una strategia efficace e benvenuta per stornare questo rischio. In un certo senso la “nuova guerra fredda” è già in atto, ma questo non significa che i canali di comunicazione fra Occidente e Russia si interrompano, come del resto abbiamo già visto persino nei momenti più critici della seconda metà del novecento. E allora appare chiaro come un “nuovo disgelo” possa aver luogo solo se si faranno lentamente strada nuovi modi di intendere le relazioni internazionali, i territori, i confini, le identità, le sovranità, la storia, le nazioni.
Sul piano immediato, una durezza programmatica dell’occidente è inevitabile e dovuta. Anche se è stato giustamente osservato, nell’occidente stesso, quante volte gli Stati Uniti abbiano compiuto violazioni analoghe (l’Iraq è una ferita aperta), questa non è una buona ragione per minimizzare le enormi violazioni del diritto e della prassi internazionale che hanno avuto e hanno luogo in Crimea. Ma sul piano delle idee, l’occidente e soprattutto l’Unione Europea devono evitare di dare una risposta simmetrica alla Russia di Putin. L’Unione deve prospettare un’Europa inclusiva, e non esclusiva. Deve sottolineare come tutti i necessari passi di aiuto e di associazione dell’Ucraina non comportino l’esclusione della Russia, e anzi lascino aperta la possibilità di una sua inclusione futura. Deve lavorare sulle contraddizioni di una Russia che si autoesclude, non già alimentare l’immagine di una Russia esclusa a forza. Bisogna mettersi anche nei panni dell’avversario, non per compiacerlo, ma per risvegliarlo. E’ l’unica strada per andare verso il futuro, per chiudere il “secolo lungo”. E forse, alla fine di questa strada, la Russia potrebbe comprendere che per se stessa sia di gran lunga meglio associarsi all’Unione Europea piuttosto che correre rischi enormi per impedire l’associazione dell’Ucraina. In questo momento buio, questa appare utopia ma nei progetti a lungo termine bisogna sempre includere frammenti di utopia.
Questi sono stati solo degli accenni, ma credo che non si poteva chiudere un corso di questo genere senza pensare all’Europa nel mondo, con il suo passato recente e anche quello più remoto. GRAZIE.

 

Sesta lezione del seminario Margini e Confini: Cittadinanze Prof. Cozzolino

Sesta lezione del seminario
Margini e Confini: Cittadinanze
Prof. Cozzolino

Massimo Abdallah Cozzolino è il direttore della Moschea di Piazza Mercato a Napoli. E’ inoltre responsabile dell’Associazione culturale Zayd Ibn Thabit, nata nel 1997 su iniziativa di un gruppo di musulmani (italiani e nord africani) che intesero colmare il vuoto spirituale allora esistente e nel contempo dare vita ad un centro di assistenza per i tanti immigrati.
Innanzitutto bisogna riconoscere come la guerra di Jugoslavia sia come l’ultima guerra del 900, cronologicamente è così: ma al contempo rimanda ad un conflitto lontano, dalle radici antiche, contraddistinto da odi atavici, e da conflitti etnici.
Vorrei riportare un aneddoto, in un periodo in cui ho soggiornato a Trieste una signora anziana diceva quando parlava della possibilità di andare nella ex Jugoslavia e diceva: “i sé cattivi dentro”, si riferiva agli slavi per indicare la loro inclinazione naturale allo scannamento, alla violenza ma chi sono questi slavi? Cerchiamo di comprendere e di porci delle domande alle quali non certo potrò rispondere completamente, ma già il fatto di porle dal punto di vista filosofico, rappresenta una traccia di ricerca. Gli slavi, costituiscono un’ unica entità etnica e linguistica e culturale, sono una sorta di popolo solitario rispetto ai latini e ai germanici, oppure tra essi vi sono profonde differenze religiose e politiche istituzionali?
Ecco rispetto a queste domande mi rivolgo alla lettura di Francis Conte, che ha scritto un testo “Gli slavi” edito dalla Einaudi nel ’91.
Le domande che ponevo riguardano proprio la complessità della materia e alla consapevolezza della molteplicità dei punti di vista e alla varietà degli approcci pluridisciplinari: dal punto di vista sociologico, dal punto di vista politico etnografico ecc..
Gli slavi rappresentano un ramo linguistico e culturale distinto in seno alla famiglia indo-europea e questo rappresenta un primo punto da analizzare: probabilmente già dal neolitico essi si concentravano nelle pianure dell’Europa orientale nei pressi di Vistola; sono in gran parte “popoli cerniera”, cioè hanno rappresentato il punto di intersezione fra due gruppi umani: quello indo-europeo occidentale che preferiva una vita stanziale e quello indo-europeo orientale aveva movimenti più complessi ed imprevedibili.
Ora l’opposizione che si è avuta tra queste due parti, permette di comprendere la tenacia e la volontà di nascere, senza scadere da una parte nel tributario dell’occidente e dall’altra senza dissolversi verso l’oriente. Questa è la peculiarità, per cui si parla propriamente di una personalità sdoppiata, quasi come un Giano bifronte, che interagisce in questa realtà europea, tra un occidente ed un oriente.
Quando parliamo dell’aspetto religioso di un popolo, ci riferiamo ovviamente a quella che è la sua memoria storica; nelle relazioni internazionali fino agli anni ‘80, non si è mai dato peso alle dinamiche religiose e al loro influsso sulle dinamiche politiche. Poi si è avuto un arricchimento per tutta una serie di avvenimenti che hanno caratterizzato l’ultima parte del XX sec.: l’Algeria, i Balcani, L’Afganistan, l’Iraq, la Russia tutti aspetti cruciali.
C’è un libro che è stato scritto recentemente nel 2012 si intitola: “Religioni tra pace e guerra. Il sacro nelle relazioni internazionali del XXI secolo”, di Ozzano Luca – Coralluzzo Valter della facoltà di Torino, che stanno dando molta attenzione dal punto di vista della scienza della politica, a cogliere la peculiarità dell’elemento religioso in questi nuovi assetti ed è proprio perché vogliamo propriamente cogliere in questo seminario.
Diciamo subito che ovviamente la religione di per se non costituisce un elemento una causa prima ma può essere strumentalmente utilizzata come elemento manipolatore per spingere verso guerre piuttosto che verso la pace. Questo particolarmente quando ci sono realtà multiculturali dov è prevalente l’elemento religioso, ma anche dove cogliamo la tendenza a una ricerca di una identità propria dell’elemento sociale – etnico; quindi vorrei, come dire, si tratta di un’altra categoria importante. Quindi punto primo: l’elemento religioso come elemento per studiare i rapporti fra nazioni; secondo elemento quando parliamo di elemento etnico, di realtà sociali spesso giungiamo a uniformare le realtà che invece sono diverse, che più propriamente dovrebbe essere riconosciuta come comunità vivente, pulsante capace di agire e di avere un ruolo da protagonisti e non piuttosto un processo meccanico. E questo perché?
Perché bisogna cercare di cogliere le differenze che avvengono all’interno di queste componenti soprattutto nei Balcani e per fare un esempio: quando si parla di componente islamica all’interno dei Balcani, bisogna fare riferimento a tutta una varietà di elementi, perché la componente islamica non può essere generalizzata come se fosse un “unicum”.
C’è un libro interessante di Piero Barcellona, che si intitola: “L’ individuo e la comunità”, il quale fa una profonda ed estesa analisi che tocca una serie di questioni legate al tema. Dal denaro, visto come il vero «soggetto libero» delle società moderne, che si muove con la stessa velocità dei mezzi di comunicazione, mentre gran parte degli uomini e delle donne del pianeta rimangono «segregati» nei loro territori, all’individuo «autentica creazione moderna», per arrivare al vero problema della politica, che è il rapporto tra socializzazione e individualizzazione. Quindi come se la società divenisse come qualcosa di costrittivo, per cui queste categorie saranno le categorie di riferimento anche a livello internazionale e che saranno, come dire, elementi catastrofici che hanno determinato le grandi tragedie e genocidi della storia.
Anche Max Weber in Economia e Società, quando parla di comunità, parla di questo orientamento all’azione che poggia su questa comune appartenenza, soggettivamente sentita, affettiva o tradizionale, mentre nelle società abbiamo delle azioni che agiscono per lo più su legami d’interesse, quindi motivati razionalmente rispetto al valore e allo scopo. Quindi vedete, è importante dare rilievo a questo aspetto per avere una nuova chiave di lettura dei fatti che sono accaduti nei Balcani.
La storia dei Balcani, voi sapete che qua ora non avrò la possibilità di ripercorrere l’intero conflitto, sarebbe oltremodo complesso e lungo, per cui cercherò di soffermarmi sugli aspetti critici, più propriamente storiografici. La storia dei Balcani è caratterizzata da questa compartecipazione delle comunità dell’impero ottomano, delle comunità cristiane ed ebraiche. Come dice bene Frederic Zurcher, sulla storia dell’impero ottomano, parla della capacità degli ottomani di portare nella loro occupazione soprattutto un elemento legislativo che non faceva direttamente riferimento alla Shari’ah, cioè alla legge islamica di derivazione coranica e della Sunna, ma al Camuto, ovvero ad una serie di apparati legislativi che venivano fuori sulla base delle esperienze e della confluenza e incontro con le altre comunità presenti nei Balcani, solo dopo viene l’elemento della Shari’ah che impedisce ed ostacola questo processo di maggiore integrazione.
E’ significativo e voglio citarlo Ivo Andrić la costruzione del ponte: “ Il mio defunto padre sentì una volta da šeh-Dedija e raccontò poi a me quand’ero bambino, da che cosa deriva il ponte e come venne eretto il primo ponte del mondo. Quando Allah il potente ebbe creato questo mondo, la terra era piana e liscia come una bellissima padella di smalto. Ciò dispiaceva al demonio, che invidiava all’uomo quel dono di Dio. E mentre essa era ancora quale era uscita dalle mani divine, umida e molle come una scodella non cotta, egli si avvicinò di soppiatto e con le unghie graffiò il volto della terra di Dio quanto più profondamente poté. Così, come narra la storia, nacquero profondi fiumi e abissi che separano una regione dall’altra. […] Si dispiacque Allah quando vide che cosa aveva fatto quel maledetto; ma poiché non poteva tornare all’opera che il demonio con le sue mani aveva contaminato, inviò i suoi angeli affinché aiutassero e confortassero gli uomini. Quando gli angeli si accorsero che […] al di sopra di quei punti spiegarono le loro ali e la gente cominciò a passare su di esse. Per questo, dopo la fontana, la più grande buona azione è costruire un ponte. (cap. XVI)”. Così come il maggior peccato consiste nel metterci addosso le mani.
Scusatemi questa lunga citazione ma ho voluto e mi piaceva riportarla per sottolineare l’importanza di questa realtà di comunicazione, di questo andare verso l’altro, di non chiudersi a barriera, e questi sono argomenti della più alta discussione sul dialogo interreligioso e costituisce ancor più un elemento mancante del dialogo mancato tra le varie comunità religiose, tra le varie chiese esistenti nei Balcani, quindi la mancanza assoluta di una forma di ecumenismo tra la chiesa ortodossa serba e la chiesa cattolica. Le barriere tra la chiesa serba e l’islam; questa forma di convivenza è durata fino a quando esisteva una autorità centrale capace di appianare le divergenze.
Quando questa scompare allora tutto decade e questa è l’immagine degli anni ’80 della morte dello Shaman.
Altro elemento fondamentale e chiave interpretativa è la fine del mondo “Bipolare”, quindi la memoria diviene un elemento di conflitto per ritrovare un’identità simbolica: questo fatto è ancora un altro fattore di lettura per cogliere i fenomeni di disgregazione e frammentazione che si sono avuti nei Balcani e non solo; c’è lo scongelamento su blocco bipolare, su cui c’è un grandissima quantità di letteratura di riferimento, non solo politico-economico-sociali dei Paesi ma anche negli assetti geografici e tutto fa ritornare con forza l’elemento religioso. Quindi nel momento in cui si sgretola questa sorta di struttura dittatoriale che appianano i conflitti si gretola il blocco di contrapposizione tra est – ovest ed ecco che con più forza ritorna il fattore religioso con i “fondamentalisti”: attenzione a quando uso la parola Fondamentalista, perché si pensa subito al terrorista; è assolutamente falso, perché il fondamentalista è colui che ricerca le proprie fondamenta dal punto di vista religioso e rimane legato ai propri elementi originari.
Pensate alle forme di fondamentalismo evangelico negli USA, a quello che è presente nella chiesa ortodossa in Russia oggi, e poi alle forme islamiche di fondamentalismi che si sono accesi e vengono da lontano: Arabia Saudita, e nord Africa sono propriamente delle forme, di mancanza di elementi identificativi forti. Quando una sovrastruttura, sociologicamente parlando, viene a mancare, l’elemento religioso ne acquista forza.
Attenzione! Il fondamentalista di per sé non si configura con il terrorista, ma il terrorista è senz’altro un fondamentalista. Può sembrare strano l’origine di questo termine è negli Stati Uniti e non certo per le vicende islamiche che sono scoppiate poi successivamente.
Il fenomeno di globalizzazione economica, culturale, tecnologica porta in contrapposizione fenomeni di frammentazione identitaria; sempre più spesso assistiamo a fenomeni di ritorno all’elemento religioso e anche alla grande ricerca scientifica fatta in tal senso, per cui tale fenomeno acquista una maggiore rilevanza negli Stati plurietnici e multi religiosi, soprattutto quando assistiamo al fenomeno delle chiese “autocefale”, ovvero a chiese amministrativamente indipendenti, oppure a fenomeni di nazionalizzazione delle chiese, così com’è avvenuto in Serbia con la chiesa ortodossa.
Questi elementi che abbiamo cercato di dare, sono tutti elementi che portano a reinterpretare la storia dei Balcani secondo il ruolo che ha, e la chiave interpretativa è quella di Edward Said con “l’Orientalismo” e le griglie interpretative sono state applicate da Maria Todorova “Immaginando i Balcani” ai Balcani e qua si parla di Balcanismo e cioè l’uso improprio di termini come etnia, di società, perché il tutto va scomposto e analizzato negli elementi; e come quando Said parlava di Orientalismo, il quale non è qualcosa di specifico delle popolazioni che stanno in Medio – oriente, è nient’altro, per sintesi, una categoria occidentale utilizzata fin dal periodo coloniale per etichettare certe realtà.
Quindi l’elemento religioso va analizzato tenendo presente le diverse aree in cui si colloca, le diverse entità religiose ma anche le specifiche circostanze; quindi l’aspetto religioso è un elemento fondante dell’identità culturale di un gruppo, di una comunità, pertanto è un potente mezzo me mobilitare le masse e per spingere verso azioni cruente e violente.
Luciano Canfora, è un filologo classico, storico e saggista italiano. È considerato un «profondo conoscitore della cultura classica», nel testo “Il mondo di Atene”, sottolinea l’importanza per i greci per indurre i cittadini a difendere la polis come se fosse una divinità; e se pensate ai libri di Prescott “La conquista del Perù, Torino 1970”, o ai processi di evangelizzazione forzati nel nord dell’Africa o in Asia, vedete che si ritrovano queste categorie, quindi non sono altro che elementi consolidati. Quindi il politico, quando decide di fare la guerra, in termini poveri, ricorre molto spesso a deputare dio e la giustizia. Attenzione! Anche quando sono iniziate le guerre in Iraq, il Presidente degli Usa, invocava la forza di dio sugli Stati Uniti per questa missione. Quindi vedete com’ è forte questo elemento.
Quindi questo aspetto è comune e bisogna vedere in quali forme si sono avuti i coinvolgimenti delle chiese e degli apparati religiosi, soprattutto come quando in Jugoslavia abbiamo un mondo gerarchico fatto da preti, arcivescovi, imam, rabbini, patriarchi e tutto questo ha una ricaduta sul popolo generando conflitti, perché i religiosi sono strumento di manipolazione dal punto di vista politico, lo abbiamo visto, ma sono anch’essi stessi manipolatori, come dire, essi possono essere elementi di risonanza per una determinata comunità e in questo caso e di stampo nazionalista; quindi questi possono provocare più o meno forme di intensificazione della tolleranza reciproca o della conflittualità.
Per quanto riguarda il fondamentalismo volevo riferirmi anche a un testo: “Fondare i fondamentalismi Esplorazioni critiche dei diversi modi del fondamentalismo nella storia” di Federico Squarcini, Lara Tavarnesi, in cui si cerca di evidenziare determinate congiunture storico-politiche fanno sì che oggi si parli diffusamente di “fondamentalismo” facendo primariamente ricorso a delle accezioni singolari del termine. Nell’uso, inoltre, si sono affermate alcune associazioni primarie, le quali conferiscono al termine un’esplicita connotazione negativa. Tuttavia, il grado di giustizia che le nostre attualità fanno a tale impiego della nozione di fondamentalismo è molto basso.
Oggi si parla di mondo fluido, ma già ne parlava James Hird, quando parlava del fenomeno che porta alla frammentarietà, quindi vi è l’esigenza di trovare nuovi riferimenti.
Ora vediamo a come si passa ad aspetti di conflittualità nei Balcani, nel caso specifico, durante gli ultimi anni del 900. Avviene una sorta di inclusione e ciò finisce con un irrigidimento del sistema dittatoriale del maresciallo Tito; una data significativa è il 1961, quando Tito riconosce la specificità dei musulmani della Bosnia Erzegovina, quindi è una sorta di riconoscimento identitario e come se in una realtà statale in cui sembra appianato, le cui uniche emergenze erano la partecipazione o meno all’ entourage del partito socialista jugoslavo, e questo riconoscimento avviene non certo perché spinti da motivi di inclusione ma soltanto per creare forme di destabilizzazione, secondo il concetto “dividi e governi”.
Infatti nel 1977 avviene un altro fatto significativo che è il riconoscimento del Patriarcato di Macedonia e la conseguente reazione negativa del Patriarcato di Serbia. Vedete quanta frammentazione che avviene all’interno della realtà della Jugoslavia e quindi dei Balcani, Questo ha dei riflessi negativi perché porta a forme di persecuzione da entrambi i fronti. Basti ricordare la propaganda della famosa guerra di Fuchs Kosovo, del 1389 quando il principe Eleazar viene sconfitto dalle truppe musulmane e quindi questo scontro che ha origine qua, tra il mondo islamico albanese e le componenti ortodosse serbe.
Attenzione! il patriarca serbo è anche arcivescovo di Bea che è un’ altra importante città del Kosovo.
E’ importante dividere, per ragioni di comunicazione, gli scontri in tre parti:
1. Primo conflitto riguarda la Slovenia e la Croazia;
2. Secondo riguarda la Bosnia Erzegovina;
3. Terzo il Kosovo, la cui situazione ancora non è risolta.
Le guerre del secondo metà del XX secolo non sono guerre che si hanno con dichiarazioni di guerra che portano due stati a confliggere con due eserciti come avveniva in passato, oggi non sono più dichiarate, e le forme di finanziamento delle guerre è sempre più occulto e si giunge a forme di genocidi e di brutalizzazione.
Sostanzialmente tre sono i componenti di questo conflitto religioso nei Balcani:
1. La chiesa Serba;
2. La chiesa cattolica, localizzata soprattutto in Croazia e Slovenia;
3. Il mondo islamico.
La chiesa ortodossa ha giocato un ruolo centrale nel movimento di liberazione del popolo serbo; guarda caso anche questo è un altro elemento fondamentale, quindi la chiesa ortodossa si identifica con la forma più genuina dell’identità serba e la struttura gerarchica marcatamente autocefala e nazionalista, porta a forme di non ecumenismo e alla chiusura di qualsiasi forma di approccio e di apertura verso l’alterità.
Quello che volevo mettere in evidenza con voi e vedere come si era sviluppato in questa galassia islamica una divisione, per usare una semplificazione, tra un’area musulmana che si richiamava a una dichiarazione del 1971 che riconosceva i valori di tolleranza e del Camuto, e da altri che si richiamavano all’applicazione della Shari’ah quindi invitavano tutti i musulmani d’Europa a rispondere con la forza per combattere contro il nemico.
Questo ha creato un fenomeno molto preoccupante, e questo lo dico da musulmano, perché con i fenomeni di apertura e vicinanza, esempio di studenti che fanno test d’ingresso in Albania, ci potrebbero essere delle ripercussioni dovute a frange più fondamentaliste, secondo la dicitura che abbiamo già detto.

Lezione del seminario Margini e Confini: Cittadinanze Impero e imperi AURELIO MUSI

Lezione del seminario

Margini e Confini: Cittadinanze

 

Impero e imperi

 

AURELIO MUSI

 

Prima di affrontare direttamente l’oggetto di questa chiacchierata, “impero e imperi”, per riprendere quel che vi ha detto la prof.ssa Fiorelli nell’introduzione di presentazione, vorrei fare una premessa collegata ad alcuni eventi di questi ultimi giorni.

Come forse alcuni sanno, giorni fa fonti di informazione hanno riferito una serie di dichiarazioni di Putin a proposito della Crimea. In sintesi le dichiarazioni possono essere così riassunte: “Con la Crimea ora la Russia è più forte, è stata ristabilita la verità storica: sono sicuro che il 2014 entrerà negli annali come l’anno in cui i popoli che vivono qui hanno deciso fermamente di stare con la Russia, affermando la loro fedeltà alla verità storica e alla memoria dei nostri antenati”. Così avrebbe dichiarato Putin nei giorni scorsi a Sebastopoli.

Bisogna riflettere attentamente sulle parole del leader russo. La realizzazione del consenso alla sua politica di espansione verso Oriente e verso Occidente passa anche per la sintonia tra la sua propaganda e il senso comune storico delle popolazioni russe.

In pratica l’idea di Putin è articolata in tre passaggi. Esiste una perfetta coincidenza tra verità storica, identità e memoria. La fonte che legittima tale coincidenza è la fedeltà agli antenati, un elemento quasi ancestrale e atavico, quello della “Grande Madre Russia”, che cancella qualsiasi altro fattore potenziale di mutamento derivante da congiunture e contesti, da variabili di segno diverso. Infine con atto autoritario, fondato sulla presunta identità tra la volontà del capo e quella delle masse popolari – è la sostanza del populismo – le parole del leader stabiliscono o ri-stabiliscono la verità storica.

Come background questa logica si radica in una visione tipica di quasi tutte le realtà politiche imperiali: la visione cioè della mobilità dei confini. L’impero è tendenzialmente “sconfinato”, costruisce volta a volta, secondo le convenienze, margini, frontiere, confini. Perciò Putin può ancora sostenere: “Noi trattiamo con rispetto tutti i paesi, tutti i popoli, ma chiediamo che ognuno tratti i nostri interessi legittimi, come il ripristino della giustizia storica e il diritto all’autodeterminazione, allo stesso modo”. La storia è giusta, per Putin, se restaura il senso dell’identità degli antenati, se riunisce, al di là dei contesti geopolitici e delle formazioni statuali, tutta la comunità russa per tutelare meglio i suoi interessi.

Il tema è assai suggestivo perché ci riporta a quei problemi di metodologia della conoscenza e ricerca storica a cui faceva riferimento la prof.ssa Fiorelli nella sua introduzione. Riassuno. Primo elemento di questa dichiarazione di Putin: c’è una perfetta coincidenza tra verità storica, memoria e identità. Secondo elemento: la verità storica è quella che si fonda sugli antenati, quindi ha una caratteristica quasi ancestrale, atavica, e nel caso della Russia la verità storica è quella fondata sul valore della grande madre Russia, un valore ricorrente nella tradizione degli antenati di questa civiltà. Terza componente della verità secondo Putin: chi è che fonda in ultima istanza il senso della verità storica? È il capo, perché c’è un’identità perfetta fra il capo e le masse. Queste sono le tre articolazioni della verità storica secondo Putin.

Un corollario di questa visione – ed entriamo piano piano nel merito del seminario – , è rappresentato dal carattere mobile dei confini e delle frontiere.

Perché è possibile la mobilità dei confini soprattutto in una situazione come quella attuale dei Paesi dell’Europa Orientale e della parte asiatica degli ex territori dell’Unione sovietica?

È possibile perché questi territori che sono emersi dopo il crollo dell’U.R.S.S., questi Stati che sono andati formandosi, hanno acquisito dei connotati deboli di Stato – Nazione dal punto di vista della costituzione politica, dei sensi di appartenenza complessi. Sono entità, soggetti territoriali che hanno costruito in modi e tempi molto frettolosi il processo di identità statual-nazionale. Così, in queste condizioni di fragilità e debolezza dei confini, è possibile a chi ha una certa idea imperiale e soprattutto la forza come Putin far passare una sua visione della verità storica.

Si può già iniziare a stabilire un’analogia con alcuni processi del passato;

Perché nel corso del XVI secolo è stato possibile a una grande e complessa formazione politica imperiale come quella spagnola costruire una egemonia mondiale?

I competitori di questa unità politica erano deboli, fragili, non avevano ancora realtà statual-nazionali definite, costruzioni politiche sviluppate. Per questo fu possibile alla Spagna aver la meglio a livello di egemonia mondiale nel sistema delle relazioni internazionali. La Francia stava combattendo le guerre di religione nella seconda metà del Cinquecento. L’Inghilterra usciva sicuramente dalla sua condizione di provincia qual’ era agli inizi del ‘500, e con Elisabetta si lanciava verso l’avventura della formazione di un’ importante potenza mondiale, ma solo nel 1588, con la sconfitta dell’Invincibile Armata, riuscì a fermare l’imperialismo attivo del re Cattolico Filippo II. Altri paesi dell’Europa stavano costruendo il loro sviluppo. Per tutte queste ragioni fu possibile alla Spagna, forte dal punto di vista politico, stabilire l’egemonia nelle relazioni internazionali.

Cambiati i contesti, ci troviamo oggi in una realtà, quella soprattutto dell’Europa orientale, in cui, salvo rare eccezioni, le formazioni statual-nazionali che sono venute emergendo dopo la crisi del comunismo, dopo il crollo del Muro e del regime sovietico, sono deboli. Quindi hanno confini territoriali non ben definiti. Chiamiamo moderno uno Stato che sa controllare i propri confini, quando cioè possiede le risorse e le capacità per far valere la stabilità di tali confini. Il processo di stabilizzazione dei confini tra il XV e il XVI secolo fu un processo lungo e complesso, che si sviluppò attraverso guerre di conquista, campagne militari e altri tipi di legittimità del potere: fra i più importanti, la successione dinastica e le strategie matrimoniali.

Quindi questo è il quadro entro cui va inserito il problema della verità storica secondo Putin. E tuttavia quando dico “secondo Putin”, dico solo una parte di verità. Infatti questo principio di legittimazione non è legato solo alla visione del capo, all’autorità del leader: esiste un legame diretto tra il leader e le masse. Questa visone di Putin non è una visone esclusiva dell’ uomo di potere; essa incontra un ampio consenso non solo in Russia ma anche fra tutte le popolazione russe che abitano e vivono entro i confini labili di altri Stati.

E allora vediamo come si è costruito questo consenso a una ideologia come quella espressa da Putin e come si è costruito il senso comune storico anche in quei Paesi che una volta erano entro il territorio imperiale sovietico e che a poco a poco, a partire dgli inizi degli anni ‘90, si sono liberati da questo dominio.

Anni fa, nel 2005, uscì un libro di un nostro collega storico scomparso, Giuliano Procacci. Il suo titolo era “Carte d’identità”. Si trattava di un’analisi puntuale dei manuali di storia usati nelle scuole di diverse parti del mondo. In particolare oggi ci interessano i manuali di storia usati nelle scuole di alcuni paesi ex sovietici.

Qual era l’elemento fondamentale che emergeva da tutti questi manuali? Prima di rispondere alla domanda, è necessaria una considerazione preliminare.

Si analizzano i manuali di storia perché, forse prima più che oggi, sono i veicoli fondamentali di costruzione della formazione del senso comune storico, a partire dalle scuole inferiori per poi arrivare all’università.

Per quanto riguarda i manuali delle repubbliche ex sovietiche, Procacci prendeva in considerazione i seguenti casi: la Moldova, l’Estonia, l’Ucraina, la Bielorussia, i nuovi stati della regione caucasica come l’Azerbaijan e la Georgia, le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale: dunque un panorama ricchissimo e in larga misura sconosciuto al grande pubblico. L’elemento ricorrente in tutti questi manuali era la ricerca delle lontane radici etniche su cui veniva fondata l’identità nazionale.

Nel caso della Moldova il riferimento identitario era scelto in un fatto molto antico e letto in chiave strumentale. Scriveva Procacci: “La storia dei Romeni è narrata come quella di un’etnia originaria nata dalla fusione tra Daci e Romani che, lungo tutto il corso della storia moderna, si è battuta per liberarsi dalle varie dominazioni e occupazioni straniere – turche o asburgiche o russe che fossero – per superare le divisioni interne e per culminare infine nel glorioso epilogo del 1918 , Marea Unire”. Nel caso dell’Estonia, le origini di una coscienza e di un’identità estone vengono fatte risalire a tempi assai anteriori a quelli storicamente reali, “attribuendo alle rivolte contadine del Medioevo una valenza patriottica e nazionale che esse non avevano e non potevano avere”. Per l’Ucraina il riferimento è ad un’ucrainità intesa come dato naturale e astorico. Altro elemento: l’ottica interna dei manuali presi in esame condiziona la sommaria trattazione della storia generale,“i cui sviluppi vengono analizzati prevalentemente in funzione della loro incidenza sulla storia dei Romeni, quando non lo siano in base a considerazioni di opportunità politica da parte di un governo quale è quello attualmente in carica, a maggioranza comunista”. Quindi non c’è neanche un riferimento a un fatto storico preciso, ma c’è solo il riferimento a un elemento generico e naturalisticamente inteso e astratto.

Nel caso della Russia il riferimento è non più ovviamente la rivoluzione del 1917, che ora non entra più come elemento identitario quale era stato in tutti gli anni della storia della Unione Sovietica: elemento genetico della costruzione di una realtà rinnovata completamente rispetto al passato.

L’elemento identitario è rinviato ad una idea metafisica quale quella mitica della grande madre Russia, un’idea importante perché torna oggi e lega fortemente il principio identitario del popolo russo alla sua possibilità di ricostruire e riunire tutti i pezzi di terra, nel senso letterale del termine, che appartengono ai russi.

Ecco: torniamo al punto da cui siamo partiti. Quando oggi Putin rivendica la sua verità storica che incontra forti consensi nelle popolazioni russe, rinvia esattamente ad un principio di autodeterminazione che è opposto al principio di autodeterminazione dei paesi occidentale e di una parte dell’Ucraina.

Guardate che il problema dell’Ucraina è un problema complesso perché non c’è un rapporto esclusivo di dialettica tra l’interno e l’esterno, dove l’interno è costituito dall’Ucraina e l’esterno dalla Russia. C’è anche una contrapposizione all’interno dell’Ucraina stessa tra due modi diversi di vedere e sentire il principio di autodeterminazione, perché per una parte degli ucraini – quelli che guardano alla Russia – il principio di autodeterminazione è fondato sulla possibilità di riguadagnare la terra ai russi, di ristabilire un legame diretto tra etnos e terra: l’etnicità è fondata sulla terra russa, quindi ovunque c’è terra russa bisogna riconquistarla. Quando Putin rivendica e fonda la verità storica, fa riferimento a questo principio. Esso non guarda a nessuna altra variabile, ma solo alla variabile terra che dev’essere riconquistata perché appartiene ai russi. Qui incontriamo, sia detto per inciso,   un altro problema importante: dovunque esistano due popoli o più di due popoli, all’interno di una stessa compagine statale, come nel caso del rapporto tra israeliani e palestinesi, si rivendica l’esigenza di andare a una articolazione in “due popoli due stati”, perché è difficile riunire in un unico stato due popoli che rivendicano un principio di autodeterminazione non identico e condiviso: quello palestinese va in una direzione, quello israeliano va in un’altra direzione.

L’altro principio di autodeterminazione, in conflitto con quello precedente e che incontra il consenso di una parte della popolazione ucraina non filorussa, è quello europeo occidentale del rispetto del diritto internazionale e dell’integrità territoriale.

Questa questione dei principi in conflitto ha a che fare non solo con “margini e confini” nel senso che voi state sviluppando in questo ciclo seminariale, ma anche con la nascita e lo sviluppo di diversi sensi e di diversi modi di intendere il principio di autodeterminazione.

Fatta questa lunga premessa necessaria per capire in che contesto attuale ci troviamo e per cominciare a evidenziare alcune linee che saranno oggetto di questa chiacchierata, spiego il rapporto tra Impero al singolare e Imperi al plurale.

L’uso delle parole è molto importante, dei rapporti logici fra le parole voglio dire. La base della storia è la logica, perché se non si possiedono gli strumenti logici non ci si può avvicinare a nulla. La logica viene prima della storia, ma, allo stesso tempo, entra direttamente nella storia.

Allora: il rapporto tra impero e imperi è un rapporto che in retorica si chiama un’ endiadi. Ovvero un concetto espresso mediante due termini coordinati e congiunti: il suo significato completo emerge solo dal rapporto stretto e necessario fra i due termini. Il coordinamento necessario singolare-plurale di  impero e imperi vuole indicare sia l’impossibilità di subordinare l’uno agli altri e viceversa, sia la possibilità di pervenire ad una piena comprensione storica della problematica solo attraverso l’integrazione tra la singolarità e la pluralità. Così impero declinato al singolare, generalmente con aggettivo (romano, carolingio, germanico, spagnolo, ecc.), è l’oggetto storico della differenza; il plurale  imperi è l’oggetto del confronto e dell’analogia: ma il primo non può sussistere, nella considerazione storiografica, senza i secondi.

Ciò significa che si può entrare nel cuore dell’impero al singolare, cioè della forma politica che caratterizza la costituzione imperiale, solo se analizzate al plurale gli imperi, solo se li ricostruite storicamente nelle loro esemplificazioni storiche. Così l’impero al singolare è la struttura politica, imperi al plurale sono le determinazioni storiche di questa forma politica. Allora gli imperi aiutano a capire l’impero e attraverso il loro studio riusciamo a dare senso e significato più specifico e più ricco ai caratteri generale dell’impero: ecco il senso di questo rapporto.

Impero è sia una definizione giuridica che politica. La prima è una definizione che fa riferimento al vertice di una struttura che noi chiamiamo imperatore. Dove c’è un imperatore siamo in presenza di una struttura giuridica che possiamo chiamare impero.

Impero su base politica significa che alcune forme di impero nel corso della storia, pur non riconoscendo un imperatore al vertice del sistema politico, tuttavia si comportano come se fossero imperi su base giuridica. Ecco perché il comportamento politico si differenzia dallo stutus giuridico, ma in qualche modo è ad esso legato.

Lo spartiacque che dà inizio ad una nuova storia degli imperi è la formazione dell’impero Romano: un modello di impero su basi giuridiche. Esso costituisce il superamento degli antichi vincoli di appartenenza delle città-Stato del mondo antico, produce un ampliamento universale della cittadinanza.La sistemazione classica di Ottaviano Augusto segna un punto di svolta rispetto alle formazioni imperiali della storia precedente e, al tempo stesso, rappresenta un modello, un insieme di costanti destinate ad influire notevolmente anche sulle formazioni dei secoli successivi fin dentro il passato recente. Tutta la costruzione romana è fondata sulla fusione nella persona dell’imperatore di tre funzioni distinte: la funzione dell’ “imperator”, cioè della forza militare; la funzione del “Princeps”, cioè della forza della giustizia; la funzione del  “pontifex maximus” , cioè della forza della religione. Le tre funzioni costitutive dell’imperatore sono passate dagli imperi di diritto a molti imperi di fatto che sono andati sviluppandosi nel tempo storico, articolandosi, ovviamente, in forme e contenuti diversi in relazione ai contesti.

L’impero su basi politiche è un impero che ha tra le sue caratteristiche prima di tutto la dimensione della totalità, cioè ogni impero è un tutto e a questa dimensione è accoppiata la dimensione dell’universalità e della spazialità politica degli imperi tendenzialmente infinita. Universalismo – particolarismo, unità – differenza sono coppie costitutive degli imperi. Gli imperi si distinguono dagli Stati per la vocazione universale, la tendenziale infinità temporale, la legittimazione fondata non solo sul principio legale/razionale, ma su quello: più auctoritas meno potestas, su una spazialità internamente complessa.

Qualsiasi impero tende cioè a presentarsi come un insieme, un sistema di valori fondamentalmente unitari e tra loro organicamente connessi, di modelli e stili di vita supe-riori a quelli di altre formazioni politiche: perciò è giusto e conviene difenderli, esportarli all’esterno e fondare su di essi la competizione internazionale. Queste sono le caratteristiche essenziali di un impero su basi politiche.

All’interno di queste caratteristiche è fondamentale una visione della spazialità che è completamente diversa rispetto a quella degli stati: cioè l’impero ha una dimensione spaziale che si differenzia nettamente dalla forma Stato.

L’aspirazione di Putin all’unione euroasiatica, di cui avete sicuramente parlato e sentito parlare, è una dimensione che è insita in tutte le strutture imperiali. Possiamo dire che tutte le strutture imperiali hanno questa vocazione a una spazialità tendenzialmente infinita, illimitata e universale: ciò distingue nettamente la forma impero dalla forma Stato.

La forma-Stato ha una visione molto più circoscritta. Certo anche gli stati entrano in conflitto. Abbiamo molti esempi fin dall’epoca moderna: gli stati costruiscono proprie sfere d’influenza e cercano di controllare, di difendere e anche di estendere queste sfere d’influenza. Ma nel trattato di Vestfalia (1648) viene stabilito che gli Stati sono tutti uguali dal punto di vista giuridico formale; quindi si stabilisce la pari dignità degli Stati, il principio che ogni Stato: e questo è un principio fondamentale nella storia moderna. Certo poi gli stati possono variare nella scala di forza e di potenza: e avremo quindi stati grandi, medi e piccoli.

Nel 1648 viene meno una clausola importantissima che aveva caratterizzato la vita storica dei secoli precedenti. Nel 1555 la Pace di Augusta, detta anche pace di Religione, fu un trattato sancito da una riunione della Dieta ad Augusta comprendente tutti i principi, le città e gli stati del Sacro Romano Impero e ratificata dal Re dei Romani Ferdinando I d’Asburgo come legge imperiale, dopo l’abdicazione del fratello Carlo V, il 25 settembre 1555. Il trattato stabilì il principio del Cuius regio, eius et religio, in base al quale i sudditi dovevano seguire la religione dei loro sovrani. La religione di uno Stato, cioè, doveva essere corrispondente a quella del sovrano. Nel 1648 il cambiamento è radicale: sono riconosciuti tutti gli Stati come Stati sovrani, indipendentemente dalla religione professata. Infatti l’Olanda e altri stati protestanti a Vestfalia sono riconosciuti nella loro autonoma sovranità e sono parificati a tutti gli altri Stati.

Per quel riguarda l’impero, ci troviamo in una condizione diversa: è vero che anche l’impero come gli stati moderni tende a difendere e estendere la propria sfera d’influenza, ma non ragiona in termini di sfere d’influenza circoscritta. A metà del secolo XVII comincia una nuova era in Europa: si passa da un mondo unipolare, fondato sulla prevalenza di un’unica potenza, la Spagna e il suo impero, ad un mondo multipolare, che cioè si organizza in vari poli d’influenza. In ognuno di questi poli c’è un soggetto politico egemone solo all’interno della propria sfera d’influenza. Invece l’ottica degli imperi prescinde dalla divisione rigida delle sfere d’influenza, come vediamo anche oggi con Putin, il quale persegue un progetto non statual – nazionale, ma imperiale. Sicuramente l’ottica imperiale di Putin da un certo punto di vista è anacronistica perché viene a collocarsi in un mondo globalizzato e multipolare in cui non si può concepire un’unica grande potenza in grado di dominare il mondo.

Voglio ora riferirmi a un problema importante nella storia: l’uso della analogia. Noi possiamo legittimamente mettere a confronto tra loro varie esperienze storiche come nel caso degli imperi e riusciamo a capire tra le differenti esperienze quali sono i caratteri strutturali, cioè come funzionano gli imperi. Questo è un modo per rapportarsi in maniera intelligente anche alla realtà contemporanea. L’uso corretto dell’analogia è collegato all’ equilibrio, che siamo chiamati a stabilire continuamente, tra la comparazione e la contestualizzazione. Quando compariamo dobbiamo guardare alle differenze dei contesti, perché essi non son tutti uguali. La storia è il regno del divenire, della trasformazione profonda e incessante: non è possibile la progettazione dell’avvenire.

Io dico sempre ai miei studenti che la storia insegna una doppia libertà. La prima è la libertà “retrospettiva”, cioè la storia ci insegna a stabile le differenze tra passato e presente. La seconda è la libertà “prospettica”: significa che la storia “ne sa una più del diavolo”, cioè non è mai finita. Non esiste la fine della storia; essa si reinventa continuamente e si trasforma, ci mette in condizione di vivere continuamente novità e non si può prevedere.

Bisogna considerare sempre la radicale diversità tra passato e presente. Al tempo stesso sono i problemi del presente che ci stimolano a guardare e riguardare il passato. Perciò le interpretazioni del passato possono cambiare. Nel fluire della storia, infatti, non ci sono solo gli eventi, ma anche le interpretazioni e ricostruzioni degli eventi. Il dovere dello storico è quello di non usare eventi, ricostruzioni e interpretazioni del passato al fine di una legittimazione del presente: è il cosiddetto “uso pubblico della storia”. L’equilibrio tra la libertà retrospettiva e la libertà prospettica della storia aiuta anche a non cadere nella tentazione dell’uso strumentale della storia.

Proprio ispirandomi ai principi suesposti, ho cercato di studiare il sistema imperiale spagnolo, il sistema politico, cioè, di una potenza che per circa un secolo e mezzo (tra il Cinquecento e il Seicento) è stata egemonica nel mondo, ha rappresentato, per intenderci, quello che gli USA rappresentano nella nostra storia contemporanea- Analizzando il funzionamento di questo meccanismo, di questa complessa forma politica, ho avuto la possibilità di identificarne i caratteri strutturali nel periodo del loro massimo sviluppo (la seconda metà del ‘500). Ho anche cercato di utilizzare in maniera corretta l’analogia e ho capito come hanno funzionato altri imperi della storia anche più vicini a noi: a partire, in particolare, dai due grandi imperi che si sono sviluppati nella seconda metà del secolo scorso dopo la seconda guerra mondiale, fino ad arrivare a tempi più attuali. e cioè al progetto imperiale dell’Unione Euroasiatica di Putin.

Lo schema “sistema imperiale spagnolo” è entrato ormai nel senso comune storiografico come cornice indispensabile per ricostruire sia le vicende interne e internazionali della Spagna tra XVI e XVII secolo, sia la storia dell’Italia spagnola, sia la storia di altri ambiti della monarchia cattolica. Si possono identificare cinque caratteri del sistema imperiale spagnolo nel periodo del suo massimo sviluppo, l’età di Filippo II.

Il primo carattere è l’unità religiosa e politica. I due attributi dell’unità sono potentemente fusi per motivi diversi. In una società complessa come quella d’antico regime, caratterizzata dalla coesistenza di più fedeltà e più sensi di appartenenza (alla famiglia, al clan, al ceto, alla corporazione, alla professione ecc.), solo due fedeltà si declinano al singolare: quella a Dio e quella al re. Un’antica e prestigiosa dinastia come quella asburgica seppe unificare questi due sentimenti e consolidare la fedeltà dei sudditi, facendo leva sia sull’unità della res publica christiana sia sull’unità dinastica. L’unità dinastica insieme con quella religiosa è l’unico riferimento unitario del sistema imperiale spagnolo, costituendone il più potente fattore di legittimità e la sede più elevata e più efficace di aggregazione politica soprattutto durante il regno di Filippo II. Il sovrano spagnolo presenta una doppia personalità costituzionale: egli è il nesso di un vasto complesso di Stati con i loro poteri locali, ma è anche l’unico titolare della sovranità, delle decisioni di politica interna in ognuno degli Stati e della politica estera dell’intera monarchia. Il riferimento sintetico del complesso sistema politico è quello di Corona.

Il secondo carattere del sistema imperiale spagnolo è la presenza di una regione-guida al suo interno È la Castiglia a svolgere tale funzione. Da qui deriva la forza economica, sociale e politica del sistema. La Castiglia, a partire dall’età di Carlo V, è cresciuta in risorse demografiche e in estensione territoriale grazie ai possedimenti americani, ha goduto di un notevole sviluppo economico grazie anche alla favorevole congiuntura internazionale, ha assunto un ruolo centrale nel mercato internazionale in virtù delle sue importanti piazze finanziarie e del commercio a lunga distanza. Filippo II localizzerà la capitale a Madrid, posta a limite tra vecchia e nuova Castiglia, e darà vita a un vero e proprio processo di castiglianizzazione, che investirà sia le élite economiche dell’impero sia le sue élite politiche. Il più influente e potente gruppo dirigente imperiale sarà espressione della più antica e prestigiosa aristocrazia feudale castigliana sia nel XVI che nel XVII secolo. E anche le forme della cultura più rappresentativa saranno castigliane. Il rilievo di questa regione-guida è altresì dimostrato dal fatto che la lunga crisi del Seicento, investendo la Castiglia, colpirà al cuore il sistema e sarà all’origine del suo lento declino.

Quindi in tutti i sistemi imperiali c’è la presenza di una regione-giuda: nell’Unione Sovietica sarà la Russia, nel caso della Spagna la regione-guida era la Castiglia., ovvero il baricentro dell’impero. Questa presenza significa che il motore economico, sociale e politico e culturale del sistema è rappresentato dalla Castiglia.

 

La Castiglia ha un rilievo come regione-guida anche dal punto di vista del modello di governo. Regione-guida anche dal punto di vista delle classi dirigenti: i viceré dalla seconda del 500 alla fine del secolo successivo provengono dalle file della alta aristocrazia castigliana.

Il terzo carattere del sistema imperiale spagnolo è l’interdipendenza tra le parti  attraverso la presenza e la configurazione di sottosistemi.  Sottosistema significa:

una serie di funzioni, tra loro coordinate, assegnate ad alcune parti, relativamente omogenee, che hanno il compito di difendere l’intero sistema;

un sistema di potenza regionale;

uno spazio politico relativamente unitario.

Il quarto carattere del sistema imperiale spagnolo è il rapporto tra concentrazione e partecipazione politica, fra linee direttrici relativamente uniformi per il governo dell’impero, e strumenti concreti di politica del territorio, che possono anche essere variabili. È un tema, questo, che rinvia alla questione del rapporto tra dominio e consenso e fra integrazione, rappresentanza, resistenza.

Infine il quinto carattere: l’egemonia nelle relazioni internazionali. È qui la radicale novità di un’organizzazione di potere che al suo stadio più compiuto – gli ultimi anni dell’età di Filippo II – inaugura il piano mondiale della vita politica in quanto richiede che in ogni sua parte ci si debba porre il problema delle relazioni con questa organizzazione di potere, obbligando tutti gli altri paesi a entrare in relazioni internazionali che abbracciano tutto il mondo conosciuto.

Quale era la base principale della relazione tra il re e i viceré? In realtà tale vincolo rappresentava un modo per conservare o, almeno, non interrompere del tutto il rapporto vassallatico. Vecchie forme feudali non si estinguevano, ma venivano riutilizzate e, per così dire, trasfigurate nella nuova realtà politico-dinastica rappresentata dall’impero di Filippo II. Il viceré poteva così conservare e consolidare la sua doppia natura: vertice di un’istituzione e, soprattutto, titolare di un vincolo personale col sovrano. Diveniva cioè parte di un processo di corresponsabilizzazione e coinvolgimento dell’alta aristocrazia nel governo della monarchia. Dunque la figura del viceré era un passaggio decisivo nella realizzazione del primo e più importante carattere del sistema imperiale spagnolo in età filippina, nel periodo cioè della sua massima espansione: l’unità politico-dinastica, unico collante di un insieme articolato e differenziato, strutturato secondo funzioni diverse e interdipendenti, capace di stabilire sul vincolo di fedeltà al re il minimo comun denominatore di territori distinti e distanti. Da questa esigenza erano originate le Istruzioni del re ai viceré: una fonte importantissima per ricostruire la storia del sistema imperiale spagnolo; una serie di raccomandazioni che riguardavano il vasto impero nelle sue diverse componenti territoriali e traducevano il bisogno di realizzare attraverso differenti compromessi territoriali le linee direttrici e unitarie della monarchia.

Queste caratteristiche ci fanno capire come sia possibile usare l’analogia in storia e trasferirci ad altri contesti: ad esempio quelli dei due più grandi sistemi imperiali che si sono affermati dopo la seconda guerra mondiale. Mi riferisco alla divisione bipolare tra USA e URSS. Si tratta di due grandi unità, quella sovietica e quella americana, che presentano similitudini e diversità. Sono simili la comune aspirazione ad essere assimilate e identificate con una civiltà, con valori cioè condivisi all’interno del sistema e contrapposti a quelli del sistema antagonista. L’ideologia ha svolto, da questo punto di vista, la stessa funzione esercitata dalla religione nel sistema imperiale spagnolo. E la Guerra Fredda si è combattuta anche su questo terreno. E’ diverso invece il modo di intendere l’unità politica. Nel caso sovietico si è trattato di un’unità integrale, in cui la regione-guida, cioè la Russia – altra caratteristica, questa della regione-guida, che rinvia al sistema imperiale spagnolo – ha totalmente assorbito e sottomesso i Paesi satelliti dell’Europa orientale. Nel caso americano, l’unità politica è stata più una tendenza che un regime perfettamente realizzato e il paese-guida, gli Stati Uniti, non ha dominato i suoi Stati di riferimento né li ha assorbiti in un organismo unico, anche se ha spesso e volentieri interferito nella politica interna degli Stati, mettendone in discussione il diritto all’autodeterminazione. Anche la presenza di sottosistemi nel blocco americano e nel blocco sovietico è indubbia: basti pensare al ruolo svolto per l’impero americano dal sottosistema Italia nell’Europa occidentale e dal sottosistema giapponese in Asia in funzione di contenimento dell’espansionismo comunista cinese; e dall’altro versante basti pensare all’impegno dell’URSS per costruire solidi contrappesi al sistema imperiale americano sia sostenendo i processi di decolonizzazione in Africa e in Asia sia spendendo risorse in uomini e mezzi militari in una realtà come l’Afghanistan, che avrebbe rappresentato uno dei motivi del crollo della potenza sovietica.

Il rapporto tra unità e pluralismo, altro carattere del sistema imperiale spagnolo, è altrettanto riconoscibile sia nel mondo liberaldemocratico occidentale sia nel blocco sovietico. Quanto all’egemonia nelle relazioni internazionali, la divisione del mondo in due blocchi contrapposti non ha consentito l’affermazione di una sola grande potenza, unico punto di riferimento mondiale come ai tempi del massimo sviluppo del sistema imperiale spagnolo.
Se dagli imperi dei blocchi e del mondo bipolare ci spostiamo agli imperi della globalizzazione, possiamo ancora riscontrare motivi di continuità e motivi di discontinuità rispetto ai caratteri del sistema imperiale spagnolo. Dopo un breve periodo, coincidente grosso modo con gli anni Novanta del secolo scorso e i primi del 2000, per il quale si è parlato di “fine della storia” (Fukuyama) e affermazione di un “unico gendarme del mondo” (gli Stati Uniti dopo il crollo dell’impero sovietico), il panorama mondiale da un lato ha visto l’ingresso sulla scena storica di altre potenze economiche e politiche, dall’altro sta presentando lo sviluppo di un sistema imperiale “sui generis”, che richiama tuttavia non pochi elementi di continuità col passato. La Russia di Putin vagheggia, sogna l’unità di valori sui fondamenti dell’ “antica madre Russia” e una tendenziale unità politica sovrastatale in un’Unione Euroasiatica. Aspira ancora ad essere la regione-guida di un sistema imperiale, in cui sottosistemi come l’Ucraina sono vitali per la salvaguardia del complesso politico sia per la funzione geostrategica (come trait-d’union del complesso euroasiatico) sia per il controllo delle risorse sia per aumentare la competizione con altre potenze.Tuttavia gli elementi di continuità non devono indurre a dimenticare che questo sistema imperiale “sui generis” opera in un quadro mondiale fortemente mutato rispetto agli anni della pre-globalizzazione. L’egemonia nelle relazioni internazionali può essere solo parziale: il multipolarismo attuale consente solo il controllo di sfere di influenza in una condizione di accesa competizione soprattutto per il dominio delle risorse materiali e immateriali. Sta forse costruendosi un rapporto tra equilibrio ed egemonia inedito rispetto al passato remoto e recente.

 

PER SAPERNE DI PIÙ

A. MUSI, Impero e imperi, in “Nuova Rivista Storica”, settembre-dicembre 2008, pp. 611-624

A. MUSI, Imperi euroamericani dell’età moderna, in “Nuova Rivista Storica”, settembre-dicembre 2010, pp. 907-928

A. MUSI, L’impero dei viceré, Bologna, il Mulino 2013

 

 

Margini e confini. Cittadinanze Il confine d’Oriente e l’Europa dell’Ottocento Vittoria Fiorelli

Margini e confini. Cittadinanze

Il confine d’Oriente e l’Europa dell’Ottocento

 

Vittoria Fiorelli

 

Una caratteristica della programmazione del seminario Margini e confini. Cittadinanze vuole essere l’accostamento critico di storia, memoria e cronaca. Testimoni che ripercorrono esperienze e passaggi del proprio vissuto si alternano a studiosi che interpretano e analizzano il passato più o meno lontano e gli scenari futuri.

A me spetta l’onere di affrontare la più ovvia e fondante delle parole “disciplinari”: storia. Un termine che può essere sinonimo di passato e di racconto, anche se l’uso disciplinare di questo termine prevede in genere la compresenza dei significati di passato e di narrazione del passato stesso.

Quando incontriamo un testimone di eventi trascorsi, lui viene a raccontare il suo vissuto al quale non deve necessariamente applicare elaborazione critica e prospettiva storica. Se la distanza dal passato, necessaria per la sua analisi, aiuta l’applicazione del rigore dell’interpretazione, l’assenza di emotività è assolutamente necessaria. Il testimone, invece, è uno storico coinvolto negli eventi che ha vissuto e li legge nella prospettiva emozionale della sua vita, senza quella distanza che consente una neutra comprensione, senza sottoporli allo spirito critico necessario a far transitare la testimonianza nell’ambito della storia.

Incontrare un testimone è un valore enorme; quello che non dobbiamo fare è assumere la testimonianza come la “verità” della storia. Quindi, per passare dalla memoria individuale alla storia, si deve costruire una distanza che non è solo fisico-temporale, ma è anche teorica, concettuale, fatta di analisi e di interpretazione.

La comunicazione contemporanea sembra affamata di storia, ma in realtà è invasa da una domanda di autenticità che spesso si dissolve nella performance di testimoni e nella scrittura di chi si limita a trasmettere le affermazioni di persone presenti agli eventi. L’intenzione di qualsiasi percorso di ricerca e comunicazione storica, invece, è quella di aiutare a leggere la cronaca alla luce di categorie di analisi che facilitino la prospettiva storica, perché questa resta uno degli elementi fondamentali di una cultura di qualità.

L’ascolto di testimoni che partecipino a incontri di studio, dunque, non deve prescindere dalla comprensione delle premesse storiche che hanno provocato gli eventi che saranno oggetto di narrazioni personali ed emotive e che devono essere ascoltate come traccia di vissuti individuali e testimonianza della cronaca contemporanea.

Il titolo “Cittadinanze” scelto per l’edizione del seminario 2014 è declinato al plurale perché rinvia a una dimensione di appartenenza che non si limita a determinare la nazione o lo Stato del quale l’individuo può e vuole sentirsi parte, ma si pone l’obiettivo di ricomporre una cultura della riconoscibilità che stenta a rientrare in canoni stabili e definiti e ingloba sentire, comportamenti, lingua e religione.

Se fino a un ventennio fa sembrava che la cultura contemporanea stesse diventando irreversibilmente laica, relegando l’appartenenza religiosa a una dimensione del privato indipendente dalla sfera pubblica, oggi l’identificazione confessionale e spirituale, lo stare dentro le chiese, torna prepotentemente a influenzare le politiche, le relazioni tra gli Stati, le loro proiezioni esterne, ne influenza la cultura ed è parte integrante del tema degli spostamenti e delle guerre, anche quelle che sfiorano il nostro ricco, laico e democratico Occidente.

Questa premessa, tanto vaga quanto necessaria, spiega il motivo che ha messo alla base di questo percorso verso la definizione delle cittadinanze contemporanee le testimonianze che attraversano due regioni che entrano in relazione con la nostra percezione di Occidente in modo complesso e continuano. La regione dei Balcani e la Russia europea sono lo spazio geopolitico nel quale intendiamo inserire la nostra riflessione sulla cittadinanza e verificare confini, limiti e marginalità imposte dal confronto etnico, religioso e culturale che, a più riprese, si è trasformato in cruenta sopraffazione e annientamento dell’altro nel cuore stesso dell’Europa. Essi sono luoghi politici nei quali le scelte dell’Europa si misurano con le criticità poste da popoli e persone di volta in volta incluse o espulse dalla nostra cittadinanza culturale.

La storia di queste criticità viene da lontano. Non possiamo ripercorrere a ritroso le radici del conflitto tra civiltà/non civiltà che si condensa nella definizione di europeo/non europeo. Ma dobbiamo almeno partire dall’Ottocento e spiegare come quel secolo divide e mette in comunicazione due ere diverse della storia occidentale.

Perché gli storici hanno parlato di “lungo” Ottocento e di Novecento secolo “breve”?

In sintesi potremmo dire che il secolo appena concluso si percepisce come breve, compattato nella prospettiva storiografica e nella percezione storica in funzione della centralità assunta dai drammi dei totalitarismi e delle dittature che hanno diluito la complessità dei percorsi precedenti e successivi della storia fagocitata dai picchi della violenza. Il secolo XIX, invece, appare come un lungo confine tra noi, il nostro tempo, e l’età moderna. Esso rappresenta l’argine posto al passato, intendendo con questa definizione la chiusura di quella lunga era di costruzione dell’Europa e della civiltà occidentale. L’Ottocento si definisce in questa prospettiva come età di transizione, di passaggio e di mescolamento. Esso diventa una linea che unisce e non divide, secondo la più moderna concezione delle frontiere mobili e indefinite.

Una prospettiva storiografica fluida, di transizione, non cancella però l’esigenza di porre delle svolte periodizzanti. Una di queste è il Congresso di Vienna, indicato dagli storici come lo spartiacque che ha dato un ordine all’Europa raccogliendo attorno a un tavolo tutte le nazioni che la componevano e disegnando una nuova geografia fisica e politica dello spazio della cittadinanza europea. Punto di partenza del lungo Ottocento, il Congresso è esso stesso confine, perché impone un ordine che chiude il moderno e ci prepara al contemporaneo.

La geografia disegnata a Vienna, però, iniziò a entrare in crisi immediatamente e a modificare frontiere, confini e appartenenze stabilite per durare una nuova era caratterizzata dalla Restaurazione, con punte critiche che si susseguirono ogni dieci-quindici anni. Se il 1815 sembrava un confine di pace e di equilibrio per l’Europa delle potenze, il suo ordine ebbe così molto presto bisogno di un gendarme, la Santa Alleanza.

A che cosa fa riferimento un’alleanza definita “santa”? Sembrano quasi due parole che non stanno insieme. Se “santa” fa riferimento a un potere divino, questo aggettivo si pone in relazione continua con la religione e con il suo universo semantico, laddove “alleanza” rinvia a una percezione squisitamente politica dei rapporti tra gli Stati.

La Santa Alleanza era l’accordo che aveva stretto attorno a un progetto la Prussia, l’Austria e la Russia, tre potenze nei cui territori prevalevano appartenenze confessionali differenti: ortodossa la Russia, protestante la Prussia e l’Austria Cattolica. Se diverse erano le connotazioni religiose dei tre Stati, però, li accomunava l’adesione a una concezione di sovranità di ancien règime, chiaramente ancorata all’investitura divina dei sovrani che non poteva che innescare nuove turbolenze. Il patto per garantire le dinastie di investitura divina entrava in rotta di collisione con l’idea si corone che traevano la legittimazione dall’investitura dei popoli.

Con i moti del 1820-1821 le popolazioni dell’Europa incluse nell’ordine di Vienna iniziano a rivendicare diritti e a richiedere Costituzioni attraverso una rete di associazioni segrete di varia natura. La violenta reazione dei regimi che ristabilirono l’ordine provocò un’ondata di migrazioni politiche, con esuli che si spostarono, cacciati dalle patrie, perdendo cittadinanze e appartenenze, per mescolarsi e rifondare nuove identità. Una breve ma intensa fase di movimenti di idee su vasta scala, che creò problemi e innovazioni non solo politici, ma soprattutto culturali.

La nuova esplosione europea fu quella degli anni Trenta, partita dalla Francia che, insieme all’Inghilterra, continuava a essere il punto avanzato della cultura occidentale e della riflessione sulla libertà. Tutto attorno, il sistema delle potenze che governava l’Europa aveva creato uno spazio organico, nel quale abitavano nazioni dalle identità forti e dalle appartenenze ben definite.

Un punto che potremmo però definire di volta è il 1853, quando iniziò la guerra di Crimea.

L’importanza di questo conflitto sta nel fatto che, per la prima volta, la Russia ebbe l’occasione di guadagnare uno sbocco sul Mediterraneo per entrare così a pieno titolo tra le potenze occidentali ed europee. Era l’anelito a una “cittadinanza politica” che turbava la proiezione decentrata del gigante russo con il baricentro europeo dal Settecento. Approfittando della debolezza turca, i russi speravano di guadagnare una presenza a Occidente inglobando un territorio nel quale riemergeva progressivamente l’antica identità slava di tradizioni, culture, lingue e religioni fino ad allora schiacciate dal dominio dell’impero ottomano oramai in dissoluzione.

La violenta reazione dell’Inghilterra che riuscì ad aggregare numerose potenze europee, fu determinata proprio dalla necessità di tenere la Russia fuori dallo spazio politico occidentale, per evitare una radicale trasformazione degli equilibri continentali e della sua storia.

Pochi anni dopo, il Congresso di Berlino del 1878, disponendo una nuova destinazione per i territori turchi in Europa, ridimensionò e divise la Bulgaria filorussa, stabilì l’amministrazione austriaca della Bosnia e confermò l’indipendenza della Romania, della Serbia e del Montenegro.

A parte i confini politici, però, la svolta di Berlino sancì la fine dell’impero Ottomano e una Europa che definendosi “occidente” andava a determinare i contorni di un nuovo “oriente”. Non era più l’impero sovranazionale dei turchi, erede di Costantinopoli, vicino e in intensa relazione economica, politica e culturale con le potenze cristiane d’Europa. I nuovi confini disegnavano un Est suddiviso in Stati nazionali nei quali riemergevano tradizioni e culture antiche e orgogliosamente diverse, con i quali gli europei dovevano intessere nuove relazioni e calibrare immagini e identità economiche, culturali, finanziarie e religiose.

Insomma, la chiusura dell’età moderna avrebbe comportato un’era nuova nella quale le relazioni tra Est e Ovest sarebbero diventate soprattutto rapporti di cittadinanze culturali.

 

 

lezione del seminario Margini e Confini: Cittadinanze Oksana Bybliv

lezione del seminario

Margini e Confini: Cittadinanze

Oksana Bybliv

 

 

Mi chiamoOksana , sono ucraina e volontaria in Italia da circa 15 anni: da premettere io non sono un’esperta di storia sono presidente di un’associazione di promozione sociale, con sede ad Avellino che si chiama “Ucraini Irpini”. Prima di tutto un ringraziamento sincero al rettorato di questa università e in particolare ai professori Fiorelli e Di Grazia, che hanno voluto fortemente questo incontro, ed hanno partecipato in maniera attiva ad un seminario su Holodomor realizzato appunto ad Avellino, in occasione del ventesimo anniversario per le vittime dell’Holodomor.

Sono una appassionata della storia contemporanea dell’Ucraina, quella storia che per un bel po’ di tempo è stata nascosta anche a noi, ma non solo: molti di voi sono testimoni che nei libri, nei testi scolastici italiani di storia o di geografia, si parlava, almeno una volta, dell’Ucraina come di una Regione della Russia o di una parte della Russia, addirittura la lingua veniva considerata come una specie di dialetto locale, nessuno allora poteva immaginare che queste considerazioni sono frutto della grande riuscita del Grande Regime nei confronti dell’Ucraina.

È un onore oggi, essere qui a testimoniare di un periodo storico dell’Ucraina di cui ancora poco si conosce.

Negli ultimi 6 mesi si sta parlando sempre più spesso dell’Ucraina che si trova quasi sempre al centro dell’attenzione dei cittadini del mondo, ed è importante far sempre presente che quello che sta accadendo oggi è in qualche modo il risultato di fatti storici che partono da lontano. Oggi parliamo di Holodomor e soprattutto del perché; il dramma dell’identificazione politico-culturale del popolo ucraino subito durante il periodo totalitario è comunque al centro della storia dell’Ucraina nel ’900.

Lo studioso americano James Mace parlò di “post-genocida” perché riguardava una valutazione adeguata dei notevoli fenomeni di ordine socio – politico – culturale – democratico – antropologico – psicologico ecc.

Circa 80 anni fa, per assoggettare l’Ucraina, il regime totalitario di Mosca impose lo sterminio e nell’arco di pochi anni si determinò la fine di un’intera generazione politica e culturale, la distruzione di una “intellighenzia” dell’élite dell’Ucraina ma anche dei contadini, della povera gente, dei lavoratori e di tutti coloro che incarnavano la tradizione dell’identità ucraina. In base a stime recenti si tratta di circa 10 milioni di persone e spesso ci si chiede il perché di tale crudeltà.

Nei primi anni ’20 il governo centrale fu costretto a una relativa liberalizzazione economica e contemporaneamente fu liberalizzata anche la politica nazionale però con il partito comunista negli organi rappresentativi.

Infatti in Ucraina il mezzo più efficace della Korenizatsiya si è rivelata la “ucrainizzazione” del partito e della società, ossia l’ufficializzazione della lingua ucraina nella sfera pubblica, a cominciare dalla documentazione del partito e dell’istruzione pubblica. In questo modo la politica di ucrainizzazione, originariamente ideata come uno strumento politico del radicamento del sistema sovietico, aveva posto le basi per la formazione di una società civile e di una nazione politica in Ucraina, dal momento in cui i suoi abitanti cominciavano ad identificarsi prima nella lingua e nella cultura e successivamente nella cittadinanza ucraina.

Il risveglio culturale e, di conseguenza, quello politico della repubblica strategicamente più importante dell’Unione Sovietica, confinante con l’Europa e ricca di risorse, con un potenziale economico e umano equivalente al potenziale complessivo delle altre repubbliche sovietiche, costituiva una forte minaccia per il regime che, secondo la sua logica, andava neutralizzata: attraverso lo sterminio di una intera generazione politica, delle élites culturali e di un’intera classe di agricoltori nel Paese considerato all’epoca il granaio di tutta l’Europa. Fu stabilito il cosiddetto “cordone alimentare” ovvero la sorveglianza lungo il confine, ma anche la famosa “legge delle cinque spighe” che prevedeva la pena di morte per poche spighe di grano cadute e raccolte dalla gente affamata durante la mietitura: campi, mulini, magazzini riempiti di grano erano sorvegliati dagli agenti armati. Dopo questi provvedimenti straordinari e senza precedenti la gente cominciò a morire in massa. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti, morirono prima i bambini, seguiti dagli anziani e dagli uomini, per ultime morivano le donne rivelatesi più resistenti. Si verificarono numerosi casi di cannibalismo e il governo sovietico adottò persino una legislazione specifica a questo riguardo. Ecco cosa fu l’Holodomor: l’assassinio di massa attraverso la fame, una catastrofe antropologica.

Eppure, tenendo conto dei dati delle fonti documentali d’archivio, in particolare le stime del censimento condotto nel 1937 in Unione Sovietica, si può affermare che il numero probabile dei morti per fame e per fenomeni a essa relazionabili (malattie, disturbi psichici e mentali, suicidi, antropofagia ecc…) nel periodo tra l’aprile del 1932 e novembre del 1933 superi i sette milioni. Il picco dell’Holodomor si registrò nella primavera del 1933.

Ogni minuto morivano diciassette persone, mille ogni ora, venticinquemila al giorno. Immaginiamo che ad oggi la popolazione della Danimarca è costituita da 5,2 milioni di persone, dell’Austria 8 milioni, della Bulgaria 8.5 milioni, del Belgio 10 milioni quindi nel periodo dell’Holodomor è scomparso un intero Paese europeo. Nel 1932-33 nella storia dell’umanità la confisca dei generi alimentari è stata consapevolmente perpetuata da uno Stato con fini politici, per provocare una distruzione di massa.

Fra i primi ad accorgersi della vastità del dramma che si stava consumando in Ucraina ma anche in Bielorussia, Paese confinante, furono i diplomatici italiani a Mosca e il console Sergio Gradenigo, capo dell’ufficio consolare di Kharkov. Durante una lunga ricerca negli archivi della Farnesina, il professore italiano Andrea Graziosi, trovò, insieme ai rapporti diplomatici e consolari, alcuni campioni di pane giunti a Roma, che dimostravano meglio di qualsiasi documento quali fossero le condizioni delle popolazioni in Ucraina negli ultimi mesi del 1932: si trattava di un impasto di cortecce di betulla, crusca e licheni, il solo cibo, insieme alla carne dei defunti (i casi di cannibalismo furono numerosi) con cui i contadini ucraini cercarono di sopravvivere alla drammatica carestia di quell’inverno .

Il console italiano scriveva al suo ambasciatore a Mosca; “la conseguenza di questa tragedia sarà una colonizzazione russa di tutto questo Paese che porterà a cambiamenti di carattere etnografico. In futuro, continua il console, si rischia che nessuno parli più dell’Ucraina, del suo popolo perché l’Ucraina diverrò un territorio con la prevalente popolazione russa”.

Per fortuna non si sono avverati del tutto i dubbi del console ma a distanza di 80 anni la Russia tenta ancora una volta di limitare la volontà del popolo ucraino. 80 anni fa con sottrazione dei raccolti e ora con il gettare scompiglio tra le popolazioni.

Vorrei citare anche qualche testimonianza di contadini sopravvissuti, anche i miei nonni materni sono sopravvissuti a Holodomor. Mio nonno è stato vittima di espropriazioni, è stato per diversi anni in carcere e questo non era un tema che affrontava volentieri anche con noi familiari. Spesso ci raccontava le storie raccomandandoci di non raccontare a nessuno in giro quello che sentivamo ma ci diceva anche che un giorno cambierà tutto e così se ne potrà parlare. Oggi posso dire che mio nonno aveva ragione.

Testimonianza:

una signora della regione di Poltava: “abitavamo in un villaggio e la nostra famiglia era composta da 9 membri. Ci hanno espropriati di tutto, mio padre è stato mandato in carcere negli Urali e noi figli con mamma siano stati cacciati di casa. Nel villaggio stavano costruendo una pista da ballo e loro hanno utilizzato anche i materiali della nostra casa […]. Da grandi abbiamo saputo che del nostro villaggio eravamo gli unici sopravvissuti e a causa dell’Holodomor della mia famiglia sono morte 7 persone.

[….]

Tante sono le memorie dimenticate che ci parlano ora attraverso varie ricerche e racconti finalmente pubblicate “Memorie Dimenticate” essi portano una scritta come se fosse un distintivo che dice che “la storia ci parla oppure non è più segreto”.

Sesta lezione del seminario Margini e Confini: Cittadinanze Caritas diocesana di Nola – Loredana Meo

Sesta lezione del seminario

Margini e Confini: Cittadinanze

Caritas diocesana di Nola

 

 

Ciro Pizzo

Quello che mi ero ripromesso oggi è di fare un pò da cappello più o meno al tema delle migrazioni, che riflettendoci un attimo anche con la prof.ssa Fiorelli e il prof. Di Grazia, di darvi almeno qualche elemento teorico di riferimento sul tema delle migrazioni prima di affrontare l’impatto delle migrazioni su un territorio particolare, del quale vi parlerà una responsabile dell’osservatorio Caritas della diocesi di Nola.

Il mio compito si riduce almeno ad un’introduzione per grandi linee interpretative che sono state date al fenomeno migratorio. Riguardo al tema delle migrazioni, forse il è il punto che più emerge dagli incontri che abbiamo avuto, su cui si erge il tema delle nazioni, questa invenzione europea che accompagna tutta la modernità. L’immagine che ci viene in mente quando si pronuncia il termine nazione è la rigidità e la fissità dei confini; spesso nella storia dei Balcani, l’abbiamo visto negli interventi precedenti, emerge questa necessità di riconoscere dove finisce l’appartenenza cattolica, quella musulmana e dove ci si può riconoscere in un’identità nazionale e qui nascono le ideologie nazionali e non solo ma qui nascono le nazioni che coincidono con le barriere nazionali, i confini. In realtà quello che bisogna sempre sottolineare è che si tratta sempre di costruzioni culturali; lo Stato deve presentare in termini rigidi dei confini, perché si tratta del riconoscimento dell’autorità, quindi i confini evidenziano l’autorità di uno stato nazionale. C’è questo intreccio tra le varie dimensioni che formano il confine come elemento istitutivo e costitutivo. Per cui uno Stato senza confine è uno stato inimmaginabile per le nostre categorie, poiché si tratta sempre di chiedere un riconoscimento fuori. Possiamo vederla anche come una lettura fondamentalista della nazione, come fondamento unico di appartenenza comunitaria attorno a cui si rivela la nuova possibilità di riconoscimento fuori dei propri confini, perché è l’altro che ci riconosce.

Noi oggi pensiamo a migrazioni soprattutto nel rapporto con l’esterno dell’Europa, ma dobbiamo considerare anche di una lunghissima storia di migrazioni interne sia nelle singole realtà nazionali ma anche alle piccole realtà territoriali, perché ogni piccolo territorio, che anche a seconda dei mezzi di comunicazione che hanno, si ha la necessità di configurarsi come sistema autosufficiente per garantire la sopravvivenza delle proprie persone che vivono sul territorio. Quindi c’è sempre questa considerazione da tener presente nell’analisi delle nazioni. Teniamo presente anche un altro elemento fondamentale per lo studio delle migrazioni: il legame con il mercato del lavoro. Ancora oggi uno dei punti nevralgici della questione delle migrazioni è questo nesso; cioè lo studio delle migrazioni nasce all’interno del contesto lavorativo quando c’è da fare i conti con gli spazi e i posti di lavoro disponibili. Il tema delle migrazioni nasce come possibilità di libertà alle origini: c’è una chiave di lettura di una scuola post-weberiana che parte dagli studi su contadini fatti da Max Weber, studi giovanili sulla agricoltura tedesca e questo si è posto come una chiave di interpretazione per chi cerca di migliorare la propria condizione. Vedete che già questa è una semplificazione del macrodiscorso che stiamo facendo; diciamo che nella storia ci sono stati anche dei migranti “di lusso”, ma questi piuttosto viaggiavano in un’Europa dove i soggetti si muovono in continuazione. Si tratta di una élite che circola stabilmente all’interno delle frontiere europee, ci sono grandi artisti che girano per le corti europee, uomini di cultura in genere, per cui per questi si usa la dicitura “viaggiano”, mentre per coloro che partono dai paesi più poveri diciamo che “migrano”. Fate attenzione coincide anche sulle categorie: il clandestino è un termine che è stato politicamente connotato, usato nelle battaglie politiche. Quindi occorre sempre far attenzione all’utilizzo di queste categorie, perché il tema delle migrazioni è diventato uno dei temi caldi di tutte le campagne politiche che si sono avvicendate negli ultimi anni e lo sarà stabilmente, questo va a incidere sul mercato del lavoro negli Stati nazionali. Quindi possono circolare liberamente, secondo l’ideologia liberale, le merci e i capitali, si è fatto di tutto per facilitarne gli spostamenti, per gli uomini invece no! Per cui a seconda delle appartenenze hanno più o meno libertà di circolazione; per cui chi appartiene ad un Paese ricco ha dei vantaggi rispetto a chi appartiene ad un Paese con più difficoltà.

Le migrazioni hanno svolto un ruolo storico fondamentale per la modificazione del mercato del lavoro perché la regolamentazione delle migrazioni transatlantiche è stato uno dei vettori che ha portato alla produzione della schiavitù. Ora non posso darvi tutte le informazioni che servirebbero, ma posso solo dirvi che le migrazioni europee verso gli Usa passano attraverso dei modelli storici ben precisi.

Ci sono due buone ricostruzioni: una è di Klaus J. Bade, L’Europa in movimento. Le migrazioni dal Settecento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2001 e l’altro è di Yann Moulier Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, Roma, Manifestolibri, 2002, che fanno da cornice alla metamorfosi delle questioni sociali. Per una ricostruzione infografica: http://www.global-migration.info/

Per quanto riguarda l’Italia, così ci avviciniamo rapidamente alle questioni del nostro territorio: c’è un momento storico che avviene a metà degli anni ’70 che segna un cambiamento radicale per il mercato del lavoro europeo: c’è lo shock petrolifero, il blocco delle esportazioni e inizia una politica di blocco delle frontiere da parte delle nazioni più evolute del nord Europa; per cui trovando bloccati gli accessi all’Europa del nord, i migranti iniziano a prendere come obiettivo i Paesi del sud dell’Europa e l’Italia inizia a divenire una delle mete stabili di immigrazione. Iniziano ad emergere delle figure prototipiche che accompagneranno un po’ tutta la storia delle migrazioni in Italia: ho fatto una sorta di raccolta di figure di queste icone delle migrazioni e che poi diventeranno anche dei profili professionali. Abbiamo due modelli agli inizi degli anni ’70 che poi si stabilizzeranno: uno è quello di coloro che arrivano in Italia al seguito di famiglie importanti e sono eritrei, somali e restano per lo più all’interno dei questi ambiti familiari. La prima figura esterna della storia delle migrazioni è quella del filippino che diventa un primo profilo professionale all’interno delle famiglie e svolge le incombenze familiari è un pò il maggiordomo delle famiglie borghesi. In questa categoria di “filippini” rientrano capoverdiani. Dopo il 1989 sarà soppiantato da un’altra figura emergente che è la polaccache entra nelle case per collaborare con le famiglie e il vantaggio come nel pretendente caso è quello di appartenere all’ ambito cristiano che ne agevola il contatto diretto con le persone della famiglia. E in questa categoria rientrano un po’ tutti coloro che provengono dai Paesi dell’est europeo. Altra figura che a metà degli anni 70 arrivano in Italia ma appartenenti ad altra area culturale sono i marocchini che creano un altro profilo professionale: il venditore ambulante. Nell’immaginario sono queste le traiettorie; l’innovazione avviene dopo la caduta del muro di Berlino, cambia lo scenario, entra sulla scena non più questa tipologia di immigrato ma c’è un immaginario diverso che si richiama a quello che diceva Cozzolino dello slavo: lo slavo violento accompagna tutte le immigrazioni dai Balcani; arrivano gli albanesi che sono quelli associati per antonomasia ai delitti efferati, di cui parlava anche la Pandolfi, seguiti successivamente dai rumeni che si confondono per dicitura con i Rom i quali sono associati all’idea di essere poco propensi alla socialità, mentre sono presentati come propensi allo sfruttamento delle donne, ai comportamenti violenti, di non avere una fissa dimora, essere quindi nomadi. Oggi si accentuano queste caratterizzazioni negative di queste che sono diventate ormai vere e proprie categorie sui nostri territori perché c’è un problema di crisi strutturale dei nostri stessi territori.

Adesso lascio la parola a Loredana.

CARITAS Nola – Loredana Meo:

Vorrei raccontarvi un pezzettino del mondo di cui già state parlando da un po’ di giorni, che è appunto quello del territorio della Caritas diocesana di Nola. Si tratta di un organismo pastorale, fondato da un vescovo, ed ha un suo mandato che è quello desensibilizzare le comunità laiche, trasversalmente, a partire ovviamente da quelle religiose del territorio, alla funzione e messa in atto di tutte le forme di carità, secondo ovviamente delle regole che valgono per tutti e che sono racchiuse in tre paroline: ascoltare, osservare e discernere. Per far questo le tre paroline chiave si incarnano in tre strumenti particolari che sono: il centro di ascolto, l’osservatorio delle povertà e delle risorse e il laboratorio.

Io sono la responsabile dell’ osservatorio delle povertà e delle risorse, insieme ad un’équipe che ha il compito di osservare un determinato territorio, e nel mio caso quello della Caritas diocesana di Nola, in termini di povertà e di risorse presenti ed eventualmente valutare anche le possibili cause delle povertà locali. Il territorio della Caritas ha una sua conformazione molto particolare dal punto di vista socio-demografico: esso copre 46 comuni su tre province che sono Napoli, Avellino e un solo comune appartenente alla provincia di Salerno.

Rispetto al tema dei migrantes, 13 anni fa la Caritas di Nola ha istituito il servizio del Centro Ascolto, il quale funziona come un piano sociale di zona, ovvero afferiscono al centro ascolto delle macro aree di bisogni, sia bisogni primari che bisogni di altra natura e genere. Quindi immaginate un po’ anziani, migranti, povertà di diversa natura. Dopo un anno dall’istituzione di questo centro di ascolto, l’osservatorio – nella mia persona – attraverso una lettura delle schede di accesso, dove noi registriamo tutte le persone che si rivolgono a un determinato servizio, si è visto che, per l’83%, coloro che si erano rivolti a noi erano immigrati.

Per lo più al primo posto c’erano color che provenivano dalla Polonia, Ucraina, e al terzo posto dal Marocco. Per il 63% erano donne, la cui richiesta principale riguardava i bisogni quotidiani ma non solo. C’era anche la richiesta di un costante accompagnamento da parte di un volontario, di sostenerle durante le pratiche burocratiche, come il permesso di soggiorno, inserimento anche per i familiari rimasti in patria, istruzione e formazione per i figli e tutto ciò che poi riguardava l’assistenza sanitaria italiana.

Per cui la Caritas ha fatto discernimento, come dicevo prima, e ha staccato un pezzettino della Caritas stessa per dal luogo ad un altro servizio, quello dello “Sportello legale per gli immigrati”. Obiettivo è quello di rafforzare la tutela giuridico – legale delle persone e famiglie immigrate presenti sul territorio della diocesi di Nola, attraverso il miglioramento della conoscenza della normativa nazionale e locale vigente e dell’acceso ai servizi di welfare locale. Informazione e assistenza per le pratiche amministrative (rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno, ricongiungimento familiare, acquisto di cittadinanza, compilazione modulistica)

Consulenza ed assistenza legale (in materia di diritto dell’immigrazione, diritto civile, diritto del lavoro, diritto penale, diritto di famiglia, locazioni, stesura di contratti, tutela del consumatore), attivando, se necessario, il meccanismo del Gratuito Patrocinio.

Questo Sportello ha avuto due punti di forza: innanzitutto che la volontaria che se ne è occupata era essa stessa una consulente legale e poi l’inserimento del migrante come risorsa ovvero come mediatore culturale, che facesse da ponte tra il servizio offerto da noi e coloro che arrivavano, questo per ovviare a tutti quegli impedimenti dovuti alla comunicazione e poi per il rispetto della persona nella sua globalità, quindi degli usi e costumi, tradizioni che sono caratteristiche peculiari di ogni nazionalità.

Dall’anno 2008 al 2010 c’è stato un picco esponenziale di accoglienza di ospiti circa 600 se ricordo bene. Dall’anno 2011 al 2012, c’è stato un picco in termini di decremento, questo dovuto forse alla attuale crisi economica, perché noi avevamo un banca dati degli assistiti, a cui facevamo riferimento su richiesta delle diverse aziende presenti sul territorio.

Lo sportello con il tempo è andato oltre le sue mansioni creando formazione con l’obiettivo di fare “rete”, coinvolgendo i sindacati locali, i Centri per l’impiego e le associazioni che occupavano dei migranti.

Attualmente nel nostro contesto territoriale mi sento di dire, senza dati scientifici alla mano, che l’impatto con le popolazioni autoctone non è assolutamente positivo e non c’è integrazione totale perché non sono state create le basi per creare una totale integrazione, per cui si necessita di un abbattimento dell’ignoranza ovvero, nel senso letterale del termine, di ignorare, cioè di non conoscere.

Vi ringrazio.

 

 

 

 

 

Paradigmi “orientali” di cittadinanza Ciro Pizzo

 

Paradigmi “orientali” di cittadinanza

Ciro Pizzo

 

 I.

Prima di tutto occorre chiarire il senso di questo aggettivo “orientale” collocato accanto al termine “cittadinanza”, che penso avrà già sorpreso qualcuno o in ogni caso non credo sia così scontato in letteratura e non solo, vista la trasformazione di questo “aggettivo” che conserva però una considerazione tutto sommato negativa o in ogni caso esotica, cioè rimanda sempre e comunque a un’area o a un contesto culturale distante o non ancora toccato dalla “civiltà” occidentale o che può parlare solo attraverso le categorie occidentali e se non lo fa non ha dignità e autonomia di parola.

In effetti l’Europa presenta un Oriente vicinissimo, ma spesso rimosso, e un Oriente più lontano,che è però quello da sempre associato a questo termine, trasformandolo in categoria, una categoria, per esempio quella di Vicino Oriente o la più ricorrente “Medio Oriente” che ha una storia abbastanza recente, frutto di una invenzione rispondente a una logica geo-politica.

«L’espressione Medio Oriente nacque infatti nel contesto degli interessi strategici delle potenze europee agli inizi del XX secolo. […] La fortuna del termine ebbe comunque inizio quando, nel 1911, si parlò di Medio Oriente alla Camera dei Lords, riferendosi con questa espressione alla Persia (Iran), al Golfo e alla Turchia. In seguito l’espressione Medio Oriente divenne sempre più popolare grazie ai bollettini e ai reportage di guerra, che negli anni 1914-1918 e 1940-192 provenivano dal fronte asiatico e nordafricano. In quegli anni tutte le denominazioni dei corpi d’armata e delle forze aree britanniche cambiarono da “vicino-orientali” in “medio-orientali”, da “Near East Force” in Middle East Force”, da “Royal Air Forces Near East Command” a “Royal Air Forces Middle East Command”»[1].

Siamo quindi a una paradossale definizione che deriva dall’ambito bellico, una invenzione derivante dall’egemonia militare dei paesi che vengono definiti “dar al-harb”, la casa della guerra dai paesi che invece fanno parte di “dar al-islam”, la casa dell’islam, islam che si ritrova a essere molto spesso la componente chiave per omologare in questa artefatta costruzione culturale, rappresentata da questo Oriente, una multiforme e complessa realtà abitata da milioni di persone.

«L’espressione Medio Oriente è dunque il risultato della combinazione di molteplici e differenti fattori: politico-strategici, storici, geografici e culturali. Dal punto di vista dell’antropologia non avrebbe tuttavia molto senso parlare di un’area siffatta, in quanto la combinazione di questi criteri non potrebbe giustificare di per sé la costituzione di un oggetto d’indagine. Se l’espressione Medio Oriente è oggi utilizzata dagli antropologi è perché essa individua un’area al cui interno si presentano, seppur con le debite differenze, dovute alla particolarità delle tradizioni locali, forme di adattamento ricorrenti, tratti culturali riconducibili allo stesso sistema di significati, visioni del mondo differenti ma non incompatibili, istituzioni sociali fondate sugli stessi principi etici e sui medesimi assunti pratici. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che alcuni di questi elementi di affinità li possiamo ritrovare tanto in alcune aree dell’Asia centrale ex sovietica (abitate in prevalenza da popolazioni di religione musulmana) quanto in alcune regioni dell’Europa mediterranea cristiana. Questa è la dimostrazione (una delle tante possibili) del fatto che, pur nella diversità, le culture e le società sono legate fra loro da una trama di relazioni che fanno dell’umanità non un “mosaico” di popoli, ma un complesso ordito di fili intrecciati. Quando si accenna alla ricorrenza di determinati tratti culturali come criterio di definizione di ciò che indichiamo con l’espressione Medio Oriente, viene quasi naturale pensare all’islam. L’islam ha contribuito a segnare e a forgiare la cultura dei popoli di quest’area in maniera incontrovertibile. Sarebbe tuttavia inesatto far coincidere il Medio Oriente con la terra d’islam»[2].

Quello che interessa qui richiamare è quindi l’associazione immediata che scatta tra il termine Oriente e la relativa categoria con il mondo extraeuropeo se non geograficamente almeno culturalmente, tanto poi da incidere sulla definizione stessa di Europa, sempre più sovrapposta tra l’altro alla categoria di Occidente. Portato sicuramente anche di una lunga storia coloniale delle maggiori potenze europee.

Siamo al cuore del gioco della costruzione delle identità e del gioco dei riconoscimenti dell’identità propria e altrui, gioco che trova il suo momento costitutivo proprio in una contrapposizione tra una cultura europea e una cultura altra, fatalmente legata a un’alterità e a una frontiera tra mondo europeo e mondo orientale. Questa alterità si installa all’interno di un discorso di lunghissima durata, che istituisce una frontiera radicale tra Asia ed Europa, due mondi completamente diversi, come ci ricorda fin dall’inizio la storia occidentale[3].

Si tratta di una storia di relazioni complesse, con un continuo alternarsi di guerre e rapimenti di donne, fino alla Guerra di Troia, che segna in un certo senso l’inizio della egemonia del mondo greco.

L’alterità asiatica sarà sempre intrisa di fascino agli occhi di chi l’ha raccontata, questo già nella narrazione erodotea per esempio di un popolo che non ha grandi capitali e altri magnifici esempi artistici, come gli Egizi, di cui pure parla Erodoto, ma che rappresenta un esempio di popolo valoroso, quasi un antesignano dei futuri cosacchi, il popolo degli Sciti, nomadi, fieri, che riescono a fermare potenti eserciti. Proprio le terre degli sciti sono poi il riferimento della teoria della koiné linguistica che sarebbe stata definita indoeuropea secondo una importante teoria[4].

 

 

 II.

Un potente fascino, anche per la enorme ricchezza non solo culturale, eserciterà un pezzo di questo Oriente anche a Roma, tanto che proprio per questo si aprirà il fronte della discussione sulla cittadinanza, saranno elargite concessioni forti a queste ricchissime province orientali e anche il confronto con le religioni orientali aprirà alla possibilità di molteplici appartenenze a Roma, la civiltà d’altronde che inventa il diritto.

Eredi dell’antica Roma e custodi di quel sapere di cui sono i rappresentanti sono quegli strani rappresentanti dell’Impero romano che romani non sono chiamati, cioè i bizantini, i Romani d’Oriente, non a caso.

Proprio a Bisanzio nasce la previsione della “protezione” e del “comunitarismo”.

Dai bizantini lo erediterà l’islam, che trova la sanzione del rispetto delle comunità religiose nel Corano.

L’amministrazione di questa “protezione” connessa all’appartenenza comunitaria porterà alla Dhimma e al Millet, cardini dell’amministrazione ottomana.

Paradossalmente da queste comunità deriva poi la riflessione balcanica sul tema della cittadinanza e della produzione del diritto e la possibilità e il riconoscimento di un ordo sottostante che si incarna in una lex, che non è che sanzione ed esito di un percorso di istituzionalizzazione della tradizione, di quella particolare fonte del diritto o diritto essa stessa che è la consuetudine.

 

III.

In un’area un po’ più a nord dei Balcani, nell’allora Bucovina austro-ungarica, odierna Ucraina, Eugen Ehrlich fa nascere la Sociologia del diritto. Non a caso da qui, credo, cioè in un luogo dove sperimenta l’incontro e il confronto con i territori di confine tra Europa Occidentale e la sua frontiera orientale dell’Europa rappresentata dall’Impero Asburgico con il mondo russo e, impiantato nei Balcani, a sud l’incontro e il confronto storico lunghissimo con l’Impero ottomano.

Ancora da quest’area frontaliera arriverà uno dei più emblematici rappresentanti del pluralismo giuridico, Georgij Davydovič Gurvič, nato a Novorossijsk, città russa sul Mar Nero, poi naturalizzato francese con il nome di Georges Gurvitch .

Il movimento del pluralismo giuridico ha portato avanti nel tempo un discorso politico importante, affiancandosi in un certo senso alle lotte anticoloniali e all’eurocentrismo che ha fatto dello Stato il naturale produttore di diritto e del cittadino un “unum” uguale agli altri di fronte alla legge, aprendo così il fronte delle eccezioni o delle possibilità di diritti “interni” allo stato di pari dignità.

Non a caso molto spesso proprio su queste frontiere orientali si è giocata questa partita, anche perché frontiere tra due universi ideologicamente contrapposti e probabilmente ancora oggi gioca un ruolo essenziale il peso degli immaginari “dispotici” orientali contro la “civile” Europa, che rischia però di essere una facile e pregiudizievole risposta a una crisi che ha una storia lunga e complessa e non può essere semplificata eccessivamente.

 

[1] Ugo Fabietti, Culture in bilico. Antropologia del Medio Oriente, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 1-2.

[2] Ugo Fabietti, Culture in bilico. Antropologia del Medio Oriente, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 2-3.

[3] Santo Mazzarino, Fra Oriente e Occidente. Ricerche di storia Greca arcaica, Milano, Bur, 2000; François Hartog, Lo specchio di Erodoto, Milano, Il Saggiatore, 1992.

[4] Giovanni Semerano, La favola dell’Indoeuropeo, Milano, Bruno Mondadori, 1995.

variazioni nei prossimi conclusivi appuntamenti del Seminario Margini e confini. Cittadinanze 2014.

 

Si comunicano alcune variazioni nei prossimi conclusivi appuntamenti del Seminario Margini e confini. Cittadinanze 2014.

 

9 maggio 9,30-11,30  Daniela Cardone Architetture oblique della cittadinanza
13 maggio 10,30-13,30 

 

Gianluca Bocchi 

 

 

 

Oscar Nicolaus

Un impero eurasiatico. La Russia fra Europa, Cina e Impero Ottomano 

Famiglie senza confini, famiglie “balcanizzate”

14 maggio 10,30-12,30 Aurelio Musi Impero e imperi
16 maggio 10,30-12,30 Luigi Manconi Diritti delle persone nello spazio dell’Europa

 

Si ricorda agli studenti che la lezione del professore Musi del 14 maggio è indirizzata anche agli studenti di Storia Moderna e Contemporanea e ai frequentanti del laboratorio di Metodologia della ricerca storica.

L’incontro conclusivo del 16 maggio con il senatore Luigi Manconi, Presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, vista la straordinarietà dell’appuntamento si svolgerà in una collocazione che sarà resa nota la prossima settimana.

 

Programmi dei Seminari Margini e confini

Per chi volesse conoscere la storia di questa esperienza di margini e confini, da dove nasce questo Centro Interdisciplinare di Studi, questo è lo storico dei programmi dal 2012 a oggi.

Margini e confini. Cittadinanze – Edizione 2014

  • Vittoria Fiorelli, Il confine d’Oriente e l’Europa dell’Ottocento
  • Ciro Pizzo, Ottavio di Grazia, Modelli socio-giuridici orientali di cittadinanza. Le comunità sefardite dei Balcani: “mondi a confronto”
  • Gianmarco Pisa, Testimoni di guerra e nuovi confini
  • Mariella Pandolfi, La linea di Teodosio torna a dividere: i Balcani del postcomunismo fra Europa e Oriente
  • Loredana Meo, Mondi di frontiera
  • AbdAllah Massimo Cozzolino, L’impatto delle migrazioni dall’est Europa su alcune aree del territorio campano. Le origini religiose del conflitto nei Balcani
  • Umberto Ranieri, Conflitti etnici e nazionalismi nei Balcani degli anni ’90
  • Oksana Bybliv e il console dell’Ucraina, Holodomor. I confini della fame
  • Michele Colucci,  Le politiche migratorie italiane dall’emigrazione all’immigrazione
  • Ana Cecilia Prenz Kopusar, Sarajevo ‘città interiore’: alcune riflessioni sulla letteratura judeoespañola tra le due guerre
  • Daniele Demarco, Dalle radici locali alla metamorfosi del luogo globale
  • Daniela Cardone, Architetture oblique della cittadinanza
  • Gianluca Bocchi,  Un impero eurasiatico. La Russia fra Europa, Cina e Impero Ottomano
  • Oscar Nicolaus, Famiglie senza confini, famiglie “balcanizzate”
  • Aurelio Musi, Impero e imperi
  • Luigi Manconi, Diritti delle persone nello spazio dell’Europa

 

Margini e confini. Transizioni – Edizione 2013

  • Vittoria Fiorelli, Ciro Pizzo, Presentazione del corso
  • Vittoria Fiorelli,    I confini del tempo: la periodizzazione, strumento e metodo per la storiografia
  • Ciro Pizzo, Transizioni alle modernità
  • Oscar Nicolaus, Famiglie in transizione. Nella vita bisogna sposarsi almeno tre volte
  • Eugenio Mazzarella, Identità e integrazione tra religione e democrazia
  • Ottavio Di Grazia, Ebraismo e transizione
  • Maddalena Della Volpe, Nuovi modelli organizzativi per nuovi mercati: comunicazione, collaborazione e co-creazione di valore
  • Gianluca Attanasio, Immacolata Cerasuolo, Pino Maddaloni, Disabilità, marginalità e valori nello sport
  • Silvia Zoppi, Transizioni letterarie (I)
  • Silvia Zoppi, Transizioni letterarie (II)

 

Margini e confini – Edizione 2012

  • Vittoria Fiorelli, Introduzione generale
  • Antonello Petrillo, Topografie del margine e topografie sociali
  • Vittoria Fiorelli, Marginalità e genere nella storiografia dell’Occidente
  • Elisa Novi Chavarria, Marginalità dei gruppi nella storia dell’Occidente
  • Marzia Mauriello, Limiti di genere: figure e rappresentazioni del pensiero della differenza
  • Marino Niola, Figure del margine
  • Ciro Pizzo, Marginalizzazione all’opera. La disabilità come paradigma
  • Ottavio Di Grazia, Alla frontiera della modernità. I casi dell’ebraismo e dell’islam
  • Eraldo Affinati, Metodologie dell’insegnamento dell’italiano ai cittadini non europei: la scuola Penny Wirton di Roma
  • Silvia Zoppi, Comunità interletterarie e patrimonio letterario nazionale
  • Gianluca Bocchi, Oscar Nicolaus, Tra interno ed esterno: intimità e spazi pubblici

 

 

Introduzione al seminario Margini e Confini: Cittadinanze Vittoria Fiorelli

Introduzione al seminario

Margini e Confini: Cittadinanze

prof.ssa Vittoria Fiorelli

 

Credo sia utile iniziare con qualche riflessione che aiuti a chiarire l’orientamento di un percorso seminariale interdisciplinare definito da un titolo insieme vago ed evocativo come Margini e confini. Il progetto nasce come punto di coagulo di interessi affini, ma distinti per provenienza disciplinare, e aggrega da qualche tempo esperti e studiosi di diversa estrazione attorno al tema del margine percepito come cifra fondamentale della contemporaneità.

Come recita il programma di quest’anno, seguendo la traccia del rinnovamento tematico e metodologico che ha coinvolto l’idea stessa di frontiera e le problematiche frontaliere, specialmente nell’ambito degli studi storici, ci si propone di analizzare le dinamiche che stanno imponendo la riscrittura dei fenomeni locali nei contesti più ampi della storia trans-nazionale e di costruire un laboratorio di metodi e prospettive per riproporre una chiave di lettura della società contemporanea che si scomponga e si ricomponga in aree di permeabilità e di meticciato, trasformando radicalmente il concetto di confine consolidato nella cultura occidentale.

Uno degli elementi più sensibili di questo dibattito è certamente quello delle migrazioni, termine spesso usato in modo improprio, che ha assunto implicazioni molto diverse dalla tradizione otto-novecentesca. Migrare oggi coincide con una dimensione di mobilità permanente di cose e di persone che si spostano non tanto per trovare nuove patrie e riprodurre le proprie radici, ma in una proiezione di cambiamento “in progress” che prevede continui spostamenti e ritorni non sempre desiderati. Per questo motivo la questione che abbiamo voluto porre alla base del percorso di quest’anno è quella delle cittadinanze. Un argomento che sembra appartenere alla sfera giuridica e istituzionale, ma che può essere declinato in un modo più fluido, a indicare la percezione di persone, gruppi, categorie sociali e di genere. E, certamente, gli emigrati e le comunità che li accolgono e, dunque, si pone in naturale continuità con il motivo dell’attraversamento.

In questo mondo in movimento, le persone valicano frontiere, superano barriere, si fermano di fronte a muri. A movimenti migratori strutturali e sistemici, insomma, si oppongono i più diversi limiti formali e informali.

Per questo, la prima immagine che ci viene incontro in questa nostra riflessione istintiva e poco organica è quella del confine geopolitico, separazione connaturata allo spostamento, barriera oltre la quale siamo abituati a pensare un luogo estraneo e differente. Eppure la linea della demarcazione territoriale degli Stati è spesso una rappresentazione immateriale, visibile sulle carte e difficilmente identificabile lei paesaggi. Perché essa non sia indefinita, talvolta può capitare che si trasformi in un margine in movimento, come è capitato a una frontiera difficile come quella tra la Giordania e Israele, dove la separazione corre lungo un fiume che cambia continuamente il suo letto creando un non-luogo che è insieme terra di nessuno e confine dilatato.

In questa prospettiva, la frontiera intesa come limite dello spazio riconoscibile dell’appartenenza introduce un elemento mobile sia dal punto di vista concettuale (dalla separazione al contatto) che estensivo (non più luogo di divisione ma fascia di interazione) nel quale i diversi si mescolano e si sovrappongono. Una chiave interpretativa nella quale il confine costituisce l’ottica privilegiata per l’analisi delle differenze sociali, più che dello spazio geopolitico, e le barriere tra i ceti, prima, e tra le classi, poi, suggeriscono i passaggi in ascesa o in discesa attraverso la commistione di modelli di comportamento, di pensiero, di abitudini e di culture

Se queste poche battute hanno avuto lo scopo di spiegare il motivo che ci ha portati ad accostare metodi e prospettive così differenti, la logica di ciascun contributo è però quella di attenersi a prospettive coerenti con il profilo disciplinare del relatore. Una logica che mi riconduce dunque a un’ottica storiografica.