Lezione del seminario
Margini e Confini: Cittadinanze
Prof. Gianluca Bocchi
Buon giorno a tutti, quando ho accettato con piacere di venire a Napoli, ho deciso, parlando con Vittoria Fiorelli di fare un intervento in qualche modo complementare agli altri interventi del vostro seminario.
Io parlerò dei confini esterni dell’Europa; oggi. se andiamo a vedere bene tutti i conflitti che sono scoppiati nel mondo dall’89 a oggi, troviamo una fascia, una linea sismica, come dice Morin, che parte dal Marocco, dall’ Algeria e arriva fino all’India, al Pakistan e al Bangladesh: questa area è chiamata, nella visione internazionale, “Medio Oriente allargato”.
Di tutte le frontiere dell’Europa, fino a pochi mesi fa, quella considerata “meno problematica” era quella russa, perché sapete che il grande spiazzamento oggi dell’Europa e della NATO è dovuto anche al fatto che nel 1997 c’era stato un accordo di partnership con la Russia e che questa era considerata una potenza militare alleata. Il cambiamento della situazione oggi ha creato dei grossi problemi e grosse tensioni soprattutto negli Stati baltici.
La mia particolarità a livello accademico è che cerco di trovare le radici del presente anche nel passato ed anche nel passato remoto. Nel corso di Scienze della globalizzazione ove insegno, ai miei studenti inizio a parlare delle migrazioni dei nostri antenati Primati, nell’Africa di quattro milioni di anni fa, ed arrivo ai giorni d’oggi cercando di avere come filo conduttore la relazione umana con la diversità. Ovviamente non parleremo del passato remoto ma una visione storica la daremo comunque.
Io parto da un discorso che negli ultimi anni ha interessato quella che si chiama “la storia globale”, cioè la storia della specie umana nello spazio e nel tempo. C’è una partizione tra Europa e Asia molto tradizionale: si dice che questa sia stata prodotta dai greci i quali difendendo la propria terra dai persiani, hanno inventato questa contrapposizione tra l’occidente e l’oriente.
Questo è il discorso tradizionale, ma oggi gli storici dicono che per vari scopi per studiare la storia su tempi lunghi possono essere utilizzate anche altre chiavi di lettura oltre a quelle di oriente e occidente: una chiave che può essere particolarmente interessante è quella che ci dice di dividere l’intero continente euroasiatico in Eurasia esterna, fatta di penisole di cui l’Europa è soltanto la più occidentale, nel quale l’agricoltura era l’aspetto economico dominante e in Eurasia interna, in cui l’elemento preponderante era dato dalla pastorizia e dall’allevamento.
Allora, a prima vista, pensando che tutti i grandi imperi hanno il loro cuore in queste penisole agricole – Europa, Turchia, India, Indocina, Cina e Giappone – si pensa che l’Eurasia interna sia poco interessante e questo è un errore capitale perché in primo luogo comprende quasi tutto lo stato russo e anche buona parte della Cina. Queste terre in passato hanno avuto un valore dominante: ad esempio il cavallo è stato per la prima volta addomesticato qui, nelle steppe dell’odierna Ucraina. Questa terra basata sulla pastorizia in realtà è stata focolaio di grandi civiltà che di volta in volta si sono combattute con le altre dell’Eurasia esterna. Noi abbiamo dimenticato queste cose perché è stato comodo parlare di barbari, come Unni, Mongoli, ecc.
Pensiamo solo all’epopea di Gengis Khan, il condottiero e sovrano mongolo che dopo aver unificato le tribù mongole, fondando un Impero, le condusse alla conquista della maggior parte dell’Asia Centrale, della Cina, della Russia, della Persia, del Medio Oriente e di parte dell’Europa orientale, dando vita, anche se per breve tempo, al più vasto impero terrestre della storia umana. Inoltre, oggi si è sviluppata l’idea che nell’Asia centrale (con centro a Samarcanda), durante quel periodo storico che noi chiamiamo ancora i “secoli bui”, cioè il Medioevo, era la sede di una grande filosofia islamica che si è diffusa i in tutta l’area islamica: addirittura il potere politico di queste zone, in cui passavano tutti i collegamenti tra l’Europa, l’India e la Cina, faceva sì di influenzare sia le dinastie islamiche del Medio Oriente che quelle cinesi. Di questa storia non è rimasto quasi nulla, di questa storia che per millenni è stata la nostra parte della storia del mondo, in cui certe volte gli imperi romani e cinesi avevano il sopravvento e altre volte avevano il sopravvento quelli dell’Asia centrale.
All’inizio dell’età moderna, poi c’è un grande scrollone che genera i protagonisti dell’età moderna, a partire dal 1492, e anche i protagonisti del mondo d’oggi, che hanno le loro radici, appunto, in questo periodo.
Che cosa succede nel 1492, e qualche decennio prima?
Non c’è soltanto l’espansione dei popoli europei su quelli del “Nuovo mondo”. Nel “Vecchio mondo” hanno luogo altre cose: in primo luogo la diffusione di una popolazione dell’Asia centrale, quindi originariamente nomade, che si impadronisce di una buona parte dei centri di civiltà del Mediterraneo. Parliamo dei turchi, che etnicamente non vengono dalla Turchia perché l’attuale Turchia è sempre stata di popolamento greco, e che solo dopo il crollo dell’impero bizantino è conquistata da popolazioni che provenivano dall’Asia centrale. Oggi la Turchia è al centro degli interessi dell’opinione pubblica internazionale. Le ragioni sono molteplici: il suo stretto coinvolgimento nella guerra civile in Siria, della quale la Turchia è vittima e parte attiva nello stesso tempo; la speranza di una progressiva soluzione della questione curda, che aveva condotto a un’intermittente guerra civile interna; il lento procedere dei negoziati di adesione all’Unione Europea, rispetto alla quale i governi e i politici europei continuano ad essere quanto mai divisi; l’altrettanto lento consolidamento di uno stato di diritto secondo i canoni e i valori occidentali, oggi decisamente frenato da comportamenti assai dubbi delle autorità giudiziarie e poliziesche. Questa nuova centralità della Turchia nelle relazioni internazionali non è nuova e risale già al tempo della fine della guerra fredda. Ma è indubbio che gli avvenimenti recenti nelle coste orientali e meridionali del Mediterraneo, e nel mondo arabo in genere, l’abbiano portata ancor di più in primo piano.
In quanto discendente dell’Impero Ottomano, l’attuale Turchia ha intessuto profondi legami con i popoli del Medio Oriente, dell’Africa settentrionale, dei Balcani. D’altra parte il popolo turco è il risultato della fusione degli antichi popoli sedentari che abitavano l’Impero bizantino con i popoli nomadi che nel Medioevo irruppero in Asia Minore da oriente, e che avevano come sede originaria le regioni della Mongolia occidentale. Sul piano etnolinguistico, i turchi sono imparentati con gli azeri del Caucaso, con gli uiguri del Xinjiang cinese, con gli jakuti della Siberia, e con molti altri popoli dell’Asia Centrale: kazaki, uzbeki, kirghisi, turkmeni. Da quando l’Asia centrale è diventata la sede delle ambizioni e dei conflitti mascherati delle grandi potenze globali, la Turchia ha opportunamente rinsaldato le relazioni culturali e politiche con tutti questi popoli. L’influenza culturale turca nel mondo islamico è salda e di lunga data. Nel suo processo di espansione, l’Impero Ottomano nel cinquecento aveva conquistato i luoghi sacri dell’Islam nella penisola arabica: per questo il sultano si era conferito anche il titolo di califfo, cioè di guida spirituale per tutti i musulmani. E il califfato durò per secoli, e fu abolito soltanto all’indomani della prima guerra mondiale, quando la Turchia era ormai diventata una repubblica.
Allora c’è un interessante capovolgimento di fronte: nel momento stesso in cui l’Asia centrale quasi scompare dalla storia, alcune popolazioni che vengono da lì conquistano una parte notevole del bacino Mediterraneo. Questo ha conseguenze importantissime ancor oggi: la Turchia è un attore rilevante perché è una terra di collegamento tra il dominio dell’ Impero Ottomano, che per secoli si è esercitato anche in Europa e lungo le coste del Mar Nero, e le terre dell’origine etnica dei turchi, che sono quegli Stati oggi tornati alla cronaca, che sono il Kazakhstan, il Kirghizistan, e così via: è interessante vedere come oggi la Turchia si presenti sia come l’erede dell’Impero Ottomano che come il portavoce delle etnie turche.
Tornando alla storia dell’età moderna, in quella stessa area euroasiatica gli ottomani trovano un potente rivale che si chiama: Russia. Nel momento stesso in cui l’impero Ottomano si propone come una potenza territoriale con capitale Costantinopoli, un altro Stato che fino ad allora era assolutamente marginale, ancora soggetto al vassallaggio dei mongoli, inizia un’incredibile espansione verso est e verso sud. Questo è uno dei tratti fondamentali dell’età moderna, che è ancora poco studiato, e che tuttavia spiega perché la Russia in quanto impero zarista, impero sovietico, e oggi diremmo “terzo impero” nazionalista, è costantemente una delle grandi potenze del mondo. La Russia nasce sull’esatto confine fra Eurasia interna ed Eurasia esterna e poi, nel corso della sua storia, arriva a dominare quasi tutta l’area interna, i cui popoli si vedono assoggettati in buona parte all’impero russo.
Oltre a questi protagonisti c’è ne un altro: la Cina. Fino al settecento la Cina aveva un’area di estensione molto più limitata, era circa la metà della Cina attuale; tutta la parte occidentale, che dal punto di vista etno-ambientale appartiene all’Asia centrale, è stata conquistata appunto nel ‘700 grazie alla dinastia dei Qing che venivano anche loro dalla periferia cinese, cioè dalla Manciuria. La Cina e la Russia in età moderna sono state grandi potenze coloniali e si sono suddivise quella che era l’Asia centrale, cioè la terra dei popoli nomadi: nel corso di questo processo si sono anche alleate in un certo momento. A proposito di confini furono loro a stipulare i primi trattati formali sui confini fra gli Imperi. Alla fine del seicento sono i gesuiti di origine italiana, di cui il più noto è Matteo Ricci, che aiutano la diplomazia russa e cinese a procedere alla spartizione dell’Eurasia interna.
Quindi gli inizi dell’età moderna sono segnati dalla nascita e sviluppo di tre grandi imperi territoriali: Turchia, Russia e Cina che si espandono e si dividono buona parte dell’Eurasia. Accanto a loro, vi è il momento della fioritura dell’Impero indiano dei Moghul e dell’Impero persiano dei Savafidi. Eppure, proprio in questo momento in cui si assiste a una proliferazione di grandi di imperi territoriali, l’Europa occidentale, che è un area che fino al 1492 è assolutamente marginale, prende il sopravvento e lo prende grazie alla realizzazione del sogno di Colombo: andare a Levante per la via del Ponente. Quindi, in qualche misura la storia dell’Europa d’occidente è la storia di un grande accerchiamento degli imperi dominanti fino a quel periodo.
L’Europa. che forma di dominio nel mondo esercita?
E’ una forma di dominio un po’ diversa da quella degli imperi territoriali perché questi sono basati su una capitale al centro del territorio e sul dominio di questo territorio; invece gli imperi europei sono fondamentalmente imperi marittimi. Gli imperi di cui abbiamo parlato hanno il controllo delle ricchezze delle rotte commerciali terrestri, ad un certo punto gli sbocchi occidentali della via della seta vengono controllato dall’impero Ottomano. Quindi l’Europa prospettando una nuova via della seta marittima. Marittimo è anche l’itinerario delle spezie per i portoghesi, che le commerciano partendo dall’Asia orientarle e portandole in Portogallo circumnavigando l’Africa. Quindi l’Europa inventa una nuova forma di commercio globale in cui le rotte sono fondamentalmente marittime ed in qualche misura inventano una forma di “impero a rete”.
Che cosa vuol dire impero a rete?
Soprattutto ai portoghesi fra alla fine del ‘400 e nel ‘500 non importa conquistare territori, importa soprattutto dominare centri di rilevanza commerciale come i porti e avamposti.
I portoghesi costruiscono una serie di avamposti sulle coste africane, in India e anche in Indonesia, ad esempio nell’isola di Timor (che conservwranno per secoli) e fino in Cina. L’Europa inizia a dominare il mondo in questo modo, anche se anche gli spagnoli conquisteranno ampi territori perché non si accontentano semplicemente delle coste americane ma penetrano profondamente all’interno del continente.
Poi ad un certo punto gli olandesi sconfiggono quasi del tutto i portoghesi e li sostituiscono in molti luoghi e in molte rotte. Alla fine arriva la potenza che più di ogni altra ha consegnato alle rotte marittime la sua storia, quella inglese, che costruisce il più grande impero della storia del mondo in una maniera totalmente diversa da quella della costruzione della Russia, proprio perché gli inglesi partono dal controllo di tanti avamposti. Gli inglesi, ad esempio, iniziano a dominare l’India partendo da porti che originariamente erano poco importanti per gli stessi indiani e che oggi invece sono diventati le città maggiori dell’attuale stato dell’India.
La Gran Bretagna alla fine dell’ 800 ha ottenuto uno dei domini più grandi dell’intera storia umana, anzi più grande ancora di quanto non sarà l’Unione Sovietica dopo il 1945. Ribadiamo la differenza: l’impero zarista prima e l’impero sovietico poi sono centrati sul territorio, mentre l’impero inglese accerchia quello russo perché è basato sul dominio delle acque.
Sia gli inglesi che i russi hanno teorizzato quella che si chiama “geopolitica moderna”, ovviamente superata perché inventata nel momento in cui non si conosceva minimamente la possibilità degli aerei e dei missili. Questa visione era imperniata sull’idea dell’esistenza di un’area territoriale fondamentale, a grandi linee equivalenti all’Eurasia interna e quindi dominata dai russi: per controbilanciare il carattere dominante dei russi le potenze coloniali che sono diffuse nei mari del mondo devono contrastare l’espansione russa nelle aree di confine fra Eurasia interna ed Eurasia esterna: Mediterraneo, India, Golfo Persico ecc.
Questa, in realtà, è una visualizzazione e una razionalizzazione del maggior conflitto storico del XIX secolo.
Fondamentalmente esiste un obiettivo della Russa, ossessivo e plurisecolare, che verrà perseguito anche dopo il crollo dell’impero zarista e la sua metamorfosi in Unione Sovietica: l’accesso ai mari caldi. I russi hanno sviluppato un senso di accerchiamento da parte del resto del mondo: storicamente si sono sentiti confinati agli estremi margini boreali del mondo e hanno anche sviluppato un senso di pericolo per le frequenti invasioni del mondo nomadico e in parte islamico, ma soprattutto hanno sentito come limitante il loro ruolo di potenza soltanto terrestre. Allora il primo, grande passo per cui la Russia diventa una grande potenza nel gioco mondiale è quando Pietro il Grande sconfigge la Svezia vicino al mar Baltico e apre una prima finestra sul mare, fondando la sua capitale San Pietroburgo appunto sul primo sbocco marittimo conquistato dalla Russia.
Tuttavia il mar Baltico è pur sempre un mare freddo e soprattutto basta il controllo degli stretti fra Danimarca e Svezia per bloccare ogni velleità di espansione marittima attraverso la rotta in questione. Quindi la Russia si sente costretta ad espandersi verso il sud, verso alri mari, verso il Mar Nero: nel ‘700 è proprio la conquista dell’Ucraina che apre la strada verso questo fronte. Il controllo del Mar Nero diventa ben presto un obiettivo praticabile, e sembra diventare il trampolino di lancio per un progetto ben più ambizioso: il ripristino dell’impero cristiano a Costantinopoli. Già all’indomani del 1453 la Russia amava considerarsi legittima erede dell’Impero bizantino, e ora non nascondeva più la sua ambizione di affacciarsi sul Mediterraneo, una volta ottenuto il possesso del Bosforo e dei Dardanelli. Quindi i russi, affacciandosi sulle coste del mar Nero, definiscono precisamente i loro obiettivi: sono una potenza terrestre che vuole diventare una potenza marittima, arrivando a Costantinopoli, nei Balcani e all’Oceano Indiano.
Dopo i primi successi lungo le coste settentrionale del Mar Nero, l’attenzione della potenza zarista si rivolse più a oriente, e le sue mete divennero appunto le coste orientali del Mar Nero, insieme alle pendici e alle montagne del Caucaso. Il territorio dei circassi fu investito in pieno dalla nuova ondata espansionistica russa. Le prime annessioni coinvolsero la parte centrale della regione, nelle zone montuose abitate dai cabardini. Dopo anni di fiera resistenza, i focolai di ribellione furono domati nei primi decenni dell’ottocento. Subito dopo i russi riuscirono ad eliminare gli ottomani dalle coste circasse ancora in loro possesso e, fra l’altro, dal litorale di Sochi. Tuttavia il retroterra, di non facile controllabilità, non si piegò ai nuovi dominatori: anzi, i circassi e i loro alleati effettuarono ripetuti attacchi agli avamposti che la Russia aveva costituito lungo il Mar Nero. La guerra durò per molti decenni, fino al 1864, parte integrante di uno scontro generale che oppose la Russia a tutti i popoli del Caucaso interno. E questo, a sua volta, è uno degli episodi più rilevanti di quella “guerra fredda” che segnò l’Eurasia intera nel diciannovesimo secolo: il “grande gioco” tra Russia e Gran Bretagna per il controllo dell’Asia Centrale e Meridionale. Anche se il fronte principale di questo conflitto era altrove, fra Afghanistan e Pakistan, il Caucaso fu un fronte per nulla marginale. I britannici diedero vari aiuti materiali ai ribelli caucasici (circassi compresi), e talvolta una vera e propria guerra tra le due grandi potenze mondiali fu evitata di un soffio. Alla fine del lungo conflitto, i russi furono impietosi con i vinti. A interi gruppi dei popoli conquistati fu posta l’amara alternativa di venir esiliati in remote regioni dell’Impero russo oppure di trovare una nuova patria nell’Impero ottomano, quale sede naturale delle etnie di religione islamica.
Allora: nell’800 la grande guerra mondiale che viene fatta non in maniera cruenta come le guerre mondiali del ‘900, è imperniata sul tentativo dei russi di distruggere l’impero ottomano e sul correlativo tentativo degli inglesi e francesi di impedirlo.
Uno dei momenti più critici del “grande gioco” avviene quando la Russia conquista l’Asia centrale, perché così arriva ad un passo dall’Oceano Indiano. Gli inglesi lo vogliono impedire: gli inglesi hanno preso il Pakistan e poi cercano di conquistare l’Afghanistan proprio in funzione anti-russa. Il disastro è grande: gli inglesi vengono distrutti dagli afghani e così decidono di mantenere l’indipendenza dell’Afghanistan, rendendolo però uno “Stato cuscinetto”: la strana forma odierna dell’Afghanistan che confina con la Cina attraverso uno stretto corridoio è appunto il riflesso del progetto inglese per evitare che i russi andassero avanti fino all’Oceano Indiano.
Queste storie iniziano a dare un senso anche alla storia recente: se noi pensiamo a come l’impero russo del 1917 è stato distrutto e come nel giro di pochi anni è rinato sotto forma di Unione Sovietica, ci rendiamo conto che una cosa che sembrava strana negli anni ottanta, cioè l’invasione dell’Afghanistan da parte russa, in realtà era un obiettivo profondamente radicato nella strategia russa da molto tempo: controllare questo Paese significa avere la porta aperta sui mari caldi. Quindi la politica sovietica non è altro che la continuazione della politica dell’impero russo.
Se ci pensate bene, tutti i grandi imperi che hanno deciso la storia del mondo dell’età moderna, nel corso del XX secolo si infrangono: l’impero Ottomano viene smantellato dopo la prima guerra mondiale, rinasce come Turchia e il resto diventa indipendente; la Russia viene smantellata due volte, nel 1917 e poi nel 1991, quando lo sgretolamento dell’Unione Sovietica genera molte repubbliche indipendenti.
L’impero inglese declina invece più gradualmente: ma la data del 1947, quando l’India e il Pakistan diventano indipendenti, segna comunque un momento fondamentale in questo declino ed è la fine per l’impero inglese dell’intervento diretto nel grande scacchiere eurasiatico.
Parlando della fine dell’Impero Ottomano, dobbiamo ricordare come il Medio Oriente ha una caratteristica fondamentale: che la gran parte degli abitanti sono arabi di confessione sunnita, ma con molte minoranze sia etniche che religiose. In una certa misura, l’Impero Ottomano riusciva a gestire diversità culturali spesso assai profonde.
Ma nel 1916 Inghilterra e Francia decidono a tavolino di tracciare una linea di confine nella sabbia dei deserti medio-orientali: a nord è la zone di predominio francese e a sud quella di predominio inglese. Venuto meno l’ordine imperiale, in queste zone le questioni etnico-religiose si sono accese, si sono moltiplicate e sono divenute croniche.
Sia in Medio Oriente che in Asia Centrale gli stati sorti nel ventesimo secolo mancano di coesione interna e sono segnati da profonde divisioni etniche, sociali e religiose: soprattutto, le minoranze non hanno visto migliorate le loro condizioni rispetto all’età degli imperi multinazionali. Conflitti interni si aggiungono a conflitti esterni, nel senso che la collaborazione regionale continua a segnare il passo, persino fra stati che si rifanno alle comuni lingua e cultura arabe.
Quando parliamo di imperi, di nazioni e popoli non si vive in un tempo solo; ci sono dei momenti storici che fanno parte del patrimonio culturale della nazione e che sono un continuo presente e un continuo punto di riferimento.
La concezione dei confini e della politica internazionale che oggi motiva e muove la Russia di Putin è sostanzialmente quella della Russia imperiale dell’ottocento. Il confine è una linea di divisione che separa un dentro e un fuori, un noi e un loro. La politica internazionale è un gioco a somma zero in cui alle vittorie della propria parte fanno da contrappunto le sconfitte altrui, vittorie tanto più apprezzate quando suonano come rivincite delle proprie sconfitte e delle vittorie altrui del passato. Questa visione, naturalmente, non era solo russa, ma era condivisa da tutti gli imperi e da tutte le nazioni europee dell’ottocento.
Però altre visioni, altri giochi sono possibili, anzi sempre più necessari. I confini possono essere ritradotti come luoghi di sovrapposizione e di integrazione fra culture, identità e qualche volta persino sovranità, come nuclei di emergenza e di sperimentazione di nuove forme di cooperazione economica e sociale. Gran parte delle nazioni e dei popoli europei hanno iniziato ad elaborare una tale visione non per una loro particolare lungimiranza, ma perché costretti dai risultati autodistruttivi della visione tradizionale. Mentre negli ultimi decenni l’Unione Europea ha goduto di notevole successo per la reinterpretazione dei suoi confini interni, ha però sottovalutato la possibilità di una reinterpretazione dei suoi confini esterni. Anzi, ha quasi del tutto trascurato la questione. Se c’è un territorio in cui le culture, le identità, la storia e le storie dell’Europa e della Russia si sovrappongono questa è l’Ucraina: frontiera nel presente per la varietà delle identità culturali dei suoi abitanti, frontiera nel passato per la molteplicità degli influssi di Roma e di Costantinopoli, di Varsavia, di Mosca e di Vienna. Ciò è esattamente quello che vogliono negare la visione e le azioni della Russia di Putin. Ma per potere contrastare efficacemente questa visione e queste azioni, bisogna chiedersi se anche noi non abbiamo sottovalutato l’intera questione.
Il problema cruciale di oggi, per l’Europa e per gli Stati Uniti, non è Putin, ma il consenso che le sue mosse riscontrano nel popolo russo: consenso che non si spiega soltanto sulla base della completa e voluta disinformazione di quanto avviene effettivamente in Ucraina. Anzi, è probabile che Putin sia così deciso nella sua linea di condotta proprio al fine di mantenere e rinsaldare il consenso interno col richiamo al nemico esterno, attraverso una strategia ben nota e consolidata in tutti i regimi autoritari. Così ha potuto sorgere il mito di una congiura occidentale dietro lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Così il giudizio di Putin della fine dell’Unione Sovietica quale peggiore catastrofe geopolitica del novecento ha trovato in Russia un consenso quasi incondizionato. Così si è fatto strada il progetto coerente della ricostruzione di un impero, che esisteva ben prima dell’Unione Sovietica e del 1917, utilizzando strumentalmente le contraddizioni e i paradossi che le astruse sistemazioni territoriali dell’età sovietica avevano lasciato in eredità agli stati suoi eredi: prima fra tutti quella dei confini fra le Repubbliche, che è quanto di più invivibile poteva essere escogitato. La repubblica di Moldavia era stata creata sotto Stalin unendo una parte predominante romena con la regione della Transnistria, che non era mai stata romena e che vedeva una forte presenza russa e ucraina: e così dopo il crollo dell’Unione Sovietica è stata proclamata la secessione filorussa della Transnistria, oggi da lungo tempo congelata. L’etnia caucasica degli osseti era stata divisa in due repubbliche autonome sovietiche, una (settentrionale) appartenente alla Russia e una (meridionale) alla Georgia: quando la Georgia è diventata indipendente la Russia ha favorito la secessione dell’Ossezia meridionale, allettando gli osseti con la possibilità di riunire la loro etnia. E oggi è la volta della Crimea, che è diventata terreno esplosivo perché, da russa che era, era stata ceduta all’Ucraina da Nikita Krusciov del 1954, per motivi non chiari: nelle dichiarazioni ufficiali si parlava di razionalizzazione economica, ma certamente hanno giocato un ruolo anche motivi di razionalizzazione militare e, insieme, una limitata concessione al nazionalismo ucraino del tempo, proprio per confinarlo nello stretto quadro di appartenenza all’Unione (Krusciov stesso, notiamo, era nato assai vicino al confine ucraino).
Ecco, l’Unione Europea ha poco compreso e ancor meno elaborato la frustrazione del popolo russo, né ha percepito quanto virulente fossero ancora le ferite, da ogni parte. Non ha saputo rivolgersi allo società civile e anche a quella politica russa, con tutte le difficoltà comportate dalla presenza di un regime autoritario, diffondendo il piccolo germe della prospettiva di una sovrapposizione fra Europa e Russia per la cogestione del vasto terreno della frontiera. E prospettando l’associazione con l’Ucraina forse non si è concentrata sull’innovazione istituzionale necessaria per far sì che l’Ucraina con l’Europa non significasse necessariamente l’Ucraina senza Russia. I processi di associazione e di adesione all’Unione Europea sono inevitabilmente e fortunatamente centripeti: da un “fuori” si viene attirati verso un “dentro”. Ma ai confini dell’Europa ci possono essere altri centri, e le loro relazioni non devono essere governate dalla legge del più forte. Il fatto è, che a breve termine, la ricostituzione di un simulacro dell’impero russo mira a perseguire un’Ucraina senza Europa. Non dimentichiamo che la fase acuta della crisi ha preso il via da un contrasto esplicito tra la volontà popolare di molti ucraini, desiderosi di avvicinarsi il più possibile all’Unione Europea, e il principio di “sovranità limitata” con cui Mosca persiste nel considerare la condizione di Kiev. Staccare l’Ucraina dall’Europa è diventato per Putin un obiettivo strategico, per la sopravvivenza stessa del suo regime autocratico. Nel 1968 una delle motivazioni principali dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia era la paura del “contagio” delle idee riformiste. Oggi c’è un timore analogo: che il crollo di un regime autoritario e corrotto alla frontiera della rinascente potenza imperiale possa incunearsi anche verso il centro, possa diffondere nuovamente fra i giovani l’ideale di una democrazia reale e compiuta. Le parole reboanti del nazionalismo sono una strategia efficace e benvenuta per stornare questo rischio. In un certo senso la “nuova guerra fredda” è già in atto, ma questo non significa che i canali di comunicazione fra Occidente e Russia si interrompano, come del resto abbiamo già visto persino nei momenti più critici della seconda metà del novecento. E allora appare chiaro come un “nuovo disgelo” possa aver luogo solo se si faranno lentamente strada nuovi modi di intendere le relazioni internazionali, i territori, i confini, le identità, le sovranità, la storia, le nazioni.
Sul piano immediato, una durezza programmatica dell’occidente è inevitabile e dovuta. Anche se è stato giustamente osservato, nell’occidente stesso, quante volte gli Stati Uniti abbiano compiuto violazioni analoghe (l’Iraq è una ferita aperta), questa non è una buona ragione per minimizzare le enormi violazioni del diritto e della prassi internazionale che hanno avuto e hanno luogo in Crimea. Ma sul piano delle idee, l’occidente e soprattutto l’Unione Europea devono evitare di dare una risposta simmetrica alla Russia di Putin. L’Unione deve prospettare un’Europa inclusiva, e non esclusiva. Deve sottolineare come tutti i necessari passi di aiuto e di associazione dell’Ucraina non comportino l’esclusione della Russia, e anzi lascino aperta la possibilità di una sua inclusione futura. Deve lavorare sulle contraddizioni di una Russia che si autoesclude, non già alimentare l’immagine di una Russia esclusa a forza. Bisogna mettersi anche nei panni dell’avversario, non per compiacerlo, ma per risvegliarlo. E’ l’unica strada per andare verso il futuro, per chiudere il “secolo lungo”. E forse, alla fine di questa strada, la Russia potrebbe comprendere che per se stessa sia di gran lunga meglio associarsi all’Unione Europea piuttosto che correre rischi enormi per impedire l’associazione dell’Ucraina. In questo momento buio, questa appare utopia ma nei progetti a lungo termine bisogna sempre includere frammenti di utopia.
Questi sono stati solo degli accenni, ma credo che non si poteva chiudere un corso di questo genere senza pensare all’Europa nel mondo, con il suo passato recente e anche quello più remoto. GRAZIE.